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CON NOTE AL TESTO, GLOSSARIO E INDICI
IN APPENDICE A LE OPERE DI DANTE EDITE DALLA SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA
FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO - EDITORI MCMXXII
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TUTTI I DIRITTI RISERVATI
45-921. — Firenze, Tip. ‘‘ L'Arte della Stampa ”’, Succ. Landi, Via S. Caterina, 14
PREFAZIONE
T primo editore del poemetto che è lo scopo principale di questa pubblicazione, il romanista francese Ferdinando Castets, lo intitolò « IZ Fiore », aggiungendo: « poème ita- lien du XIII° siècle,... imité du Roman de la Rose, par Du- RANTE ». Il titolo veniva da sè, poichè « il fiore » fu dal poeta sostituito dovunque, con intenzione assai chiara, alla ‘rosa ’ di Guglielmo di Lorris e di Giovanni de Meun; che sia del XIII secolo, dimostrano anche da sole la grafia e la lingua, benchè alquanto rammodernate dai copisti, con la loro so- miglianza alla grafia e alla lingua dei primi canzonieri; e infine che si tratti di un’ imitazione, o piuttosto di un adat- tamento italiano, talvolta traduzione assai fedele, più spesso libera riduzione del famoso romanzo, è troppo evidente perchè potesse sfuggire anche al meno preparato dei lettori. Ma fu proprio Durante il nome del poeta? E se fu, chi era costui?
Noi dobbiamo qui contentarci di esporre in poche parole 1 contradittorii elementi di giudizio, che furono fatti valere da una parte e da un’altra per risolvere l’ insolubile que- stione; ma premettiamo che, qualunque cosa si possa dire da chi non ha letto con attenzione o con le necessarie di- sposizioni l’operetta del vero o falso Durante, essa non è in- degna di tenere un posto assai onorevole nella nostra più antica letteratura; che, per quanto l’autore abbia fatto tutto il possibile per infrancesare il suo bel fiorentino, un poema
VI PREFAZIONE
così caratteristicamente francese come il Roman de la Rose è diventato assai italiano; e che infine l’opera è pur riuscita notevolmente poetica, benchè di nuovo quasi a dispetto dell’autore, il quale, avendo senza dubbio tirato via in gran fretta, non senza stancarsi e annoiarsi, ha non di rado l’aria di uno dei più solenni scansafatiche che si conoscano tra i poeti.
Il poeta del Fiore attesta da sè di chiamarsi Durante, in due sonetti (LXXXII, CCII), anzi nel secondo premette al suo nome il ‘ ser’ proprio dei notai: «al buon di ser Durante ». Disgraziatamente, nè al ‘ser’, che può avere, come ebbe, significato scherzoso, nè al nome ‘Durante ’, che mette in sospetto con la sua aria di pseudonimo simbolico, si può concedere senz’altro la nostra fiducia; e nondimeno sta il fatto che i versi del son. LXXXII, dove il nome ricorre, corri- spondono ai vv. 11423 sgg. del Roman 1, dove è nominato Guglielmo di Lorris, nome vero del primo dei due autori:
- Que cis las dolereus Guillaumes, Qui si bien s’est vers moi portés, Soit secorus et confortés.
‘Durante ’ può dunque non essere, ma può bene anch’essere un nome vero, con o senza ‘ser’; quantunque noi non cono- sciamo alcuno, fra i Duranti poeti della fine del sec. XIII o di poco oltre, che abbia mai dimostrato neppur lontana- mente la capacità di scriver sonetti come sono parecchi di quelli del Fiore. D'altra parte ‘ Durante’ è la forma più ampia del nome ‘ Dante, e sì notano nei sonetti altre singolarissime coincidenze :.... quale raggio di luce e quale tentazione ! « De prime-abord », scrisse nella sua Introduzione il Castets (p. xv), «le fait que les biographes anciens regardent Dante ‘comme une forme abrégée de Durante, les détails si nouveaux et si importants que nous avons au sonnet xcIl sur Sigier de Brabant, enfin cette curieuse rencontre que le seul de ces sonnets qui soit déjà connu en Italie (S. xCVII) est at-
1 Ed. FRANCISQUE-MICHEL, di cui bisogna adattarsi alla strana c spropositata numerazione.
PREFAZIONE VII
tribué à Dante par un manuscrit, m’avaient fait songer à l’auteur de la Divine Comédie. Par une autre coincidence qui n’est pas non plus sans interét, le personnage que Fal- sosembiante prend pour type du moine hypocrite et rapace, est un frate Alberto (S. LXxxVII, 13, Cxxx, 3). Or, parmi les sonnets attribués è Dante, j'en rencontre un où il est parlé aussi de frati Alberti ». È il sonetto, accolto senza esi- tare anche dal Barbi nell’edizione critica delle Rime dante- sche (Le Opere di Dante, p. 102), « Messer Brunetto, questa pulzelletta », che non solo allude a certi « frati Alberti » (l’ipocrita frate Alberto sostituisce nel Fiore il « frère Sohier» del Roman), ma accompagna a « Messer Brunetto », a cui è indirizzato, un’ operetta di poesia, — la « pulzelletta » del primo verso —, consigliandogli, se non la intende bene, di farsela interpretare da quegli stessi « frati Alberti » o, infine, se neppur essi bastino, da « Messer Giano ». Messer Giano ! Ma non è dunque in persona l’autore della seconda e più vasta parte del Roman, Jean de Meun? E allora come esitare a chiamar la « pulzelletta » col suo vero nome, il Fiore?
Gli argomenti che il Castets adduceva in favore dell’attri- buzione dantesca (a cui credeva più di quanto allora non abbia voluto lasciar apparire), sono ancora press’a poco i nostri. Il nome Durante direbbe poco da sè, quando quelle altre coincidenze non ne rafforzassero il significato, e tutte le coincidenze indicate non servirebbero a nulla senza il nome Durante; ma la loro unione fa la loro forza. Quel nome, che il poeta potrebbe aver voluto adoperare nella sua forma più ampia, o per circondarsi d’un poco di mistero (la natura dell’opera glielo consigliava) o per metterne in vista il significato simbolico, sembrerebbe venir fuori senza veli, nella sua sacra e immortale forma accorciata, per merito di quel manoscritto, a cui allude il Castets, che, narrando un aneddoto leggendario di Dante, mette in relazione con lui, e diciamo pure gli attribuisce, la prima quartina del sonetto «Chi della pelle del monton fasciasse » (xcvIr). L’as- sunzione dell’averroista e perseguitato Sigieri alla gloria del paradiso è uno cei misteri danteschi; ed ecco che nel Fiore
VIII PREFAZIONE
Sigieri è presentato come una vittima dell’ ipocrisia e del- l’invidia fratesca. E da ultimo si aggiunge la ‘ pulzelletta ’, coì ‘frati Alberti ’-e ‘ Messer Giano ’. Fu detto, ed è giusto ripetere, che, se non si trattasse di Dante, queste prove avrebbero persuaso anche molti de’ più diffidenti. Viceversa, dobbiamo riconoscere che, se anche l’unico manoscritto del Fiore portasse il nome ‘Dante ’, e, chi sa? se anche portasse, come nome d’autore, tutto intiero ‘ Dante Alighieri ’, più d’uno, per la natura dell’opera e per le sue bizzarre imperfezioni, sarebbe ostinatamente restio ad accet- tarne l’autenticità. Non è dunque da maravigliarsi se accanto a dotti e letterati di prim’ ordine, che l’ asseriscono con tranquilla risolutezza — il Mazzoni, il D’Ovidio, il Rajna — altri, con altrettanta sicurezza, si rifiutano di credervi. Per questi, — se vogliamo provarci in parte a riassumerne, in parte a indovinarne le obbiezioni, — quanto più si crede a Durante nome reale, e tanto più si ha il dovere di credere al ‘ ser ’; per contro, il nome di Dante, che apparisce in quell’ insigni- ficante e arbitraria glossa interpretativa (specie di ‘razo’) della quartina « Chi della pelle del monton fasciasse », e può esservi stato sostituito ad un altro, non si può prender troppo sul serio. Che il poeta del Fiore fosse mal disposto verso i monaci e non meno feroce contro la loro ipocrisia che lo stesso Jean de Meun, non fa mestieri di dimostrarlo, e nulla quindi vi è di misterioso nel fatto che le vicende e l’uccisione di Sigieri, avvenimenti senza dubbio tra i più noti della cronaca del tempo, abbiano commosso o sdegnato lui come certo tanti altri, come fra gli altri anche « il vicin suo grande » Dante Alighieri; ma bisognerebbe dimostrar meglio che lo spirito beffardo e irriverente del poeta del Fiore corrisponde a quello del poeta della Vita Nuova o delle canzoni allegoriche. Con aspetto assai più minaccioso per gli increduli viene innanzi la « pulzelletta ». Ma sarebbe una ben singolare ‘ pulzelletta ° il Fiore, con la mole de’ suoi CCXXXII sonetti, co’ suoi insegnamenti e il suo tanto poco modesto linguaggio ! Come la « pulcella nuda » del sonetto «Se Lippo amico se’ tu che mi leggi », non è che una stanza di canzone, nella «pulzelletta» dovrà riconoscersi o una bal.
PREFAZIONE IX
lata o tutt'al più una canzone intiera, probabilmente una ballata o una canzone allegorica:
La sua sentenzia non richiede fretta, nè luogo di romor nè da giullare; anzi si vuol più volte lusingare, prima che’ n intelletto altrui si metta.
Non pare che il Fiore esiga tanto acume o sforzo d’ intel- letto per essere inteso, e anche meno poi che esso richieda appartate e silenziose meditazioni e rifugga dagli strepiti giullareschi. Posto che Dante non può esser stato così fiacco e strano nel caratterizzare un’opera come il Fiore, il riscon- tro dei « frati Alberti » e di « messer Giano » rimane soltanto uno dei più graziosi tiri che la verosimiglianza abbia giocato alla verità storica. Senza dire che l’attributo di ipocriti lar- gito al «frati Alberti », è già una piccola violenza che noi facciamo al senso letterale, per render più verosimile la ve- rosimiglianza. A non saper nulla del Fiore, la frase ‘è un frate Alberto ’ 8’ interpreterebbe agevolmente come un’espres- sione popolare, nel senso di ‘è un furbo, uno che la sa lunga’, senza attribuirle eccessiva malignità; e si capisce che di cotali persone navigate dovessero trovarsene parecchie in- torno a un buontempone bizzarro come Betto Brunelle- schi, e che Dante lo esorti a ‘ristringersi’ con loro per svelare gli arcani della ‘pulzelletta ’, ma «sanza risa». Si tratta di una cosa seria, par che gli dica, e per una volta tanto bisogna star serii. Quanto a «messer Giano » (a Fi- renze, o Torrigiano o altro, ben prima che Jean), il quale non ha avuto tanta virtù da persuadere della sua origine francese neppur tutti i critici favorevoli all’autenticità, egli, col suo titolo cavalleresco o dottorale di « messere », che ostenta di fronte al collega «messer Brunetto », non ha affatto l’aria di attribuirselo solo per scherzo o per amplifi- cazione. Si potrebbe pensare ad una canzonatura rivolta contro un dottore, che so io? di scienze occulte; ma è più semplice e naturale supporre che «messer Giano » facesse parte anche lui della brigata, e vi fosse famoso, per esempio, come uno al cui occhio nessuno riuscisse a tener nascosti ‘
Xx PREFAZIONE
i fatti suoi, anche più gelosi e segreti. L’allusione compirebbe degnamente, con una punta di più maliziosa personalità, il grazioso sonetto; piccolo e caratteristico esempio di vita elegante e raffinata, nel quale si direbbe che Dante, da uomo di spirito, intenda prevenire co’ suoi frizzi i frizzi con cui quegli uomini di spirito avrebbero accolto, pur gustandoli e ammirandoli, i suoi poetici e idealistici misteri. | Sottilizzando un poco, si potrebbe anche domandare: è il Fiore un’opera veramente condotta a termine, che ad un autore dovesse parer in grado di presentarsi al prossimo e di girar per il mondo ? Che significa la mancanza dell’ultimo verso nel son. CxXxI, del penultimo nel CxxxII, dell’ottavo nel cxLIV? E se dal penultimo del cxxxtI, che ha un poco più l’aria di un semplice guasto delle copie, si volesse arguire lo stesso per gli altri, come si spiega la rima falsa, ben diffi- cile, o forse impossibile, a sostituire e correggere, del ccxI (v. 13)? Non si può asserire che il Fiore rimanesse affatto sconosciuto, poichè uno dei sonetti fu rifatto a modo suo da Bindo Bonichi, o sia chi si voglia, conservandone intatta la prima quartina e in buona parte la seconda, e la prima inol- tre diede il tema a quella piccola leggenda; ma questo non ba-. sta a toglier forza alle ragioni che lo farebbero riguardare come un lavoro lasciato imperfetto dall’ autore, o per deliberato proposito, o per circostanze più forti della sua volontà. ! Eppure, per quanto s’ insista a scrutare ostilmente le prove favorevoli per diminuirne il valore, esse, non si può negarlo, lasciano sempre un certo residuo positivo: se non: « messer Giano », forse, per chi ci tenga, quei « frati Alberti », o almeno quel nome ‘Dante’ dell’aneddoto; poichè, nelle
1 È noto che fu fatto anche un tentativo per assegnare al Fiore un autore determinato, all’infuori di Dante, cioè Rustico di Filippo (ERASMO PERCOPO, Zl ‘ Fiore” è di Rustico di Filippo?; nella Itassegna critica della letter. italiana, XII, 1907, pp. 49 sgg.). Certo, fra i poeti d’allora che conosciamo, Rustico ne sarebbe l’unico degno, l’unico che potremmo credere ben capace di averlo scritto. Ma è una pura sup- posizione, che ha per sè quasi soltanto la comunanza di una parola, «farneccio » 0 « forneccio » j} e contro di sè l'arcaicità di Rustico alquanto maggiore, tantochè in lui non v’è indizio di ‘ dolce stil nuovo” e il sonetto è quasi sempre rimato, nelle quartine, a b a b, anzichè, come nel Fiore, a Dba.
PREFAZIONE XI
glosse esplicative di questo genere, il sorriso scettico della critica che le mette in quarantena non può, senza speciali mo- tivi, rivolgersi contro lo stesso loro punto di partenza. È suf- ficiente un tale residuo positivo a far da contrappeso alle gravi prove negative? Qui sta la questione. Non discutiamo se un’opera simile convenga al concetto tradizionale del carattere e dell’arte di Dante. Non domandiamoci se Bea- trice, nel Paradiso terrestre, quando rimprovera a Dante poeta i versi sulla « pargoletta », cioè le Canzoni cosiddette pietrose, non avrebbe potuto trovare anche più serio motivo di rimbrotti nello sboccato e irriverente Fiore. E lasciamo in pace anche la cronalogia che, costringendoci a rinunciare agli anni più giovanili di Dante, ci consente soltanto la scelta fra il periodo dell’amore per Beatrice, della Vita Nuova, della prima canzone allegorica, e quello, altrettanto poco opportuno, della sua vita politica. Stiamo agli argomenti più materiali e più terra terra: si può credere che Dante si lasciasse andare a quell’orgia di sfacciati francesismi? Rispondono ch’era un periodo di transizione, in cui il francesismo dominava nelle scritture, e non solo non dava noia ma poteva anche parere un’eleganza; senonchè, quanti sono i francesismi di Dante, del vero Dante ? Anzi, quali sono le scritture contemporanee in. cui essi abbiano libertà di sfrenarsi a precipizio come nel Fiore ? La stessa Intelligenza non può stare con esso al paragone. Vocaboli come « anfante», «camminiera » (cammino, o carro !), «covriceffo », «crinello », « ghillare », « giadisse », « ligire », « miccianza », « miccina », « disposato proposato riposato » (disposto, ecc.), « ostare », « riccezza », «svanoire », ecc., l’uso di «san» per ‘senza’, «non pa », l’«on» o «uon», « molti d’esempii », il genitivo senza segnacaso, come in « lignaggio Salvagnone », e tutti quei bruttissimi imperfetti congiuntivi che stanno in luogo del condizionale, o talvolta il contrario, certo non hanno nulla di dantesco, tanto più che spesso gli uni e gli altri non servono che a facilitare alla pigrizia del poeta una rima pur che sia. Altro rimedio non ci sarebbe che attribuire a Dante d’aver fabbricato quel linguaggio italo-francese per scherzo. Ma, osservando quanto sia larga e sicura la conoscenza che
XII PREFAZIONE
l’ ignoto poeta ha del francese, del quale gli vengono facili e spontanei sulla penna anche vocaboli estranei al Roman, e quanto il suo orecchio mostri di esserselo fatto familiare e usuale, un’altra congettura prende il sopravvento, nono- stante le obbiezioni che si posson muovere in contrario: che in verità Durante sia stato uno di quei fiorentini per i quali la Francia e le Fiandre, campo della loro attività, erano quasi una seconda patria, e il francese, quindi, una se- conda lingua, che poteva alquanto intorbidare nei loro ri- cordi la nativa schiettezza della lingua materna.
All’ infuori dei francesismi, il fiorentino di Durante scorre fresco e sicuro, ma esso pure è forse troppo fiorentino per Dante, con tutti gli accorciamenti che predilige (anche se una parte possa provenire dai copisti); mentre poi la lingua in genere e la grafia sembrano essere più vicine all’ uso dei vecchi canzonieri che a quello dantesco, nonostante la scar- sezza (comune però, per es., anche a Rustico di Filippo) di vere rime siciliane. Certo, dantesco non è l’uso di «uomo » («uom », «on») per fare il passivo, nè il « sì », diciamo pleo- nastico, di cui il Fiore sovrabbonda fastidiosamente, nè la persistenza del «ched » («sed », «od», «ed», ecc.).
Fra tante apparenze contradittorie, si potrebbe sperare che ci rimanga un solido fondamento di giudizio, lo stile. Abbiamo già detto che poeticamente il Fiore è opera no- tevole, benchè il poeta vi apparisca spesso soffocato e vinto dalla pigrizia e dalla fretta dell’artista; e non si potrebbe perciò considerarlo come del tutto indegno di Dante, quando sì pensi, ben s’ intende, non al Dante della Divina Commedia, ma a quello delle Rime giovanili; a un Dante che abbia ti- rato via quasi per scherzo, di lena ma in fretta, alla brava, ora con sincera e luminosa gioia d’artista, ora annaspando, dormicchiando, impazientandosi. In tali condizioni, però, è assai difficile riconoscere se lo stile sia dantesco; e chi ri- conoscerebbe, non sapendolo, che l’autore di « Donne che avete intelletto d’amore » è anche quello di « Ei m'’ incre- sce di me sì duramente » o di « Così nel mio parlar voglio esser aspro »? E chi deciderebbe senza incertezze che l’au- tore di quelle canzoni è anche quello della Commedia? Non-
PREFAZIONE XIII
dimeno, lo stile del Fiore sembra più facile, spesso troppo fa- cile e andante, sembra meno legato, meno complesso, meno energico, e nei più felici momenti ha qualche cosa, se oso dirlo, | più di ariostesco che di dantesco: per esempio, nel sonetto, nonostante qualche trascuratezza, ammirabile (XXVIII):
Gelosia fece fondar un castello con gran fossi dintorno e barbacani,
che concentra in una lieta visione lirica l’elegante ma diffusa e chiacchierina descrizione di Guglielmo di Lorris (più di sessanta versi), e circonda l’ immaginario castello, ben reale nella fantasia del poeta, di uno splendore, caratteristica- mente italiano, non solo di forza, ma di artistica bellezza:
e nel miluogo un casser fort’ e bello, che non dottava assalto di villani, fece murare a’ mastri più sovrani, di marmo lavorato ad iscarpello.
Veniamo all’ altro poemetto, al Detto d’ Amore, e alle ra- gioni che ce lo hanno fatto accogliere, insieme col Fiore, in questa ‘ Appendice ’ all’ edizione critica delle Opere di Dante. La ragione è una sola, ma buona: il poeta del Fiore è senza dubbio anche il poeta del Detto d° Amore. Salomone Morpurgo, pubblicando per la prima volta nel 1888 i due frammenti che ne rimangono in quattro foglietti laurenziani, scoprì subito in essi suppergiù tutto ciò che v’era da sco- prire: che il poemetto proveniva dal Roman de la Rose come il Fiore ; che era stato scritto dal medesimo amanuense; che aveva con esso in alcuni versi somiglianze tanto strette da non poter esser casuali, e che anzi pareva del medesimo autore. Disgraziatamente, quest’ultima sua osservazione, che egli aveva avvolto di certe nebbie, non andò a genio ai dotti italiani, che gli dettero sulla voce, dicendo anche molto male del poeta del Detto, come indegno di aspirare a qualsiasi parentela col poeta del Fiore ; e il Morpurgo lasciò correre. Probabilmente egli pensò che il tempo è galantuomo. E noi crediamo che ora sia tempo di cassare il giudizio dei critici;
XIV PREFAZIONE
nè sentiamo bisogno, per persuadere subito i lettori almeno della dipendenza di uno dei poemetti dall’altro, di adoperare altre prove che quelle già indicate dal Morpurgo, o anzi che una sola di esse. I versi del Detto d’ Amore (260-62):
Unque Assessino al Veglio non fu già mai sì presto, nè a Dio mai il Presto
(il famigerato Pretejanni), FOFRIEPORNOLO a questi del Fiore (11, 9-11):
Ed i risposi: « I’ sì son tutto presto
di farvi pura e fina fedeltate,
più ch’Assessino al Veglio o a Dio il Presto ».
Benchè il Veglio della Montagna e il Pretejanni siano quasi una fissazione de’ vecchi rimatori, il loro accoppia- mento e la frase ‘ più pronto che verso Dio il Presto ’, sono tanto personali da non permettere che due supposizioni: o l’un autore ha imitato l’altro, o sono il medesimo autore, che ha ripetuto sè stesso.
Aggiungo per abbondanza, senza Stare a far quistione col. l’amico Morpurgo di tuo e di mio, gli altri passi di imita- . zione diretta. Si confrontino i versi seguenti del Detto d'Amore (6-9):
Po’ ch’ e’ m’ebbe inservito e ch'i’ gli feci omaggio, 1 V ho tenuto maggio © e terrò già ma’ sempre,
con questi del Fiore (che servono ad essi pur quasi di com- mento):
E saramento gli feci e omaggio....
e sempre lui tener a segnor maggio.
Sono questi i vv. 4, 8 del son. III; i versi di mezzo, 5 sgg.:
e per più sicurtà gli diedi in gaggio il cor, ch’ e’ non avesse gelosia ched i’ fedel e puro i no gli sia,
PREFAZIONE XV
rispondono ai versi 24-25 del Detto: (Amore)
vuol ben lo gaggio che ’1 tu’ cor si’ a lu’ fermo;
ma quel medesimo participio « inservito », ignoto ai nostri vocabolarii, che abbiam trovato nel v. 6 del Detto, ricorre più lontano nel Fiore (x, 1 sgg.):
Udendo che Ragion mi gastigava perch’ i° al Die d’amor era ’nservito....
Qui il poeta del Fiore continua (vv. 5-7, 9-11):
i° le dissi: « Ragion, e’ non mi grava
su’ mal, ch’ i’ ne sarò tosto guerito,
chè questo mio signor lo m’ ha gradito.... . 1 son fermo pur di far su’ grado,
perciò che mi promise fermamente,
ched e’ mi metterebbe in alto grado ».
E il Detto (63-65): Amore, chi la sua penitenza
la porta in grado, il mette in alto grado....
Ma di nuovo assai più oltre (vv. 274-76):
. 1 ho ben a mente ciò ched e’ m’ ebbi (cod. ebbe) in grado, sed i’ °1 servisse a grado,
dove, fra l’altro, « ciò ched e’ m’ ebbi in grado » è l’equiva- lente ce quasi l’ interpretazione di «lo m’ ha gradito ». Ancora. Detto (141-42): (Ragione,) tu mi vuo’ trar d’amare e di’ c' Amor amar è; Fiore (xxXVIII, 1-2):
Ragione, tu sì mi vuo’ trar d’amare e di’ che questo mio signor è reo,
XVI PREFAZIONE
versi che non hanno se non vaghi riscontri nel Roman. Il che è da ripetere anche per il v. 153 del Detto:
Sanz’'Amor sì è nuìa,
similissimo a quello del Fiore (xxxviu, 11): sanz’ Amor non è altro che nuìa,
e per qualche altro caso che rimarrebbe (almeno, Detto, 293-4: Fiore, LXXV, 9-10, cfr. LXXxvIt, 10).
Notevole è l’accordo nell’uso di certi vocaboli o frasi; ma ricorderò soltanto il nome proprio « Veno »; il « mala » di Detto 314, e « maletta » di Fiore CLXXI, 8, che è il francese ‘ malle ’, ma nel Roman non si trova; lo strano « ho propo- sato » di Detto 123, e «tu mi proposi », di Fiore XXXVII, 5, per ‘ ho proposto ’ ‘ mi proponi’. Sono invece soltanto del Detto «cors », corpo (165), «non.... gotta» (221), il provenzale «cara » (283); ma ci mostrano come l’ un autore non voglia esser da meno dell’ altro nell’ adozione di vocaboli stranieri nudi e crudi. |
Fin qui però l’ ipotesi dell’ imitazione non potrebb’essere nettamente esclusa. Che il poeta del Detto (solo di lui po- trebbe trattarsi) tenesse innanzi contemporaneamente il Roman e il Fiore, non è verosimile, ma non è affatto impossi- bile. Basta però mettersi a considerare con qualche atten- zione l’ insieme dell’ortografia e della lingua che son proprie dei due testi, per persuadersi che i due autori non formano che una sola persona. Tutto è identico: particolarità grafiche come l’omissione di r o n finale («cave mai», aver mai, «ciascu schifo » nel Detto, e « allo gli piacque », allor gli p., « te ciascun », tiene c., nel Fiore: cfr. la ‘ Nota al Testo ’, in fine al volume); scempiamenti di consonanti; il continuo troncamento di « que’ » « tu’ » « ma’ » « me’ » « canta’ » per cantai, ecc.; «eo » e « meo », anche troncati: « e’ », «lo me’ core »; Y «on» 0 «uon » per formare il passivo; il « san » per ‘ senza ’; l’uso del « sì », dell’ « ed » «od » e del « ched » e via discorrendo. Per somigliarsi tanto, non basta esser contem- poranei.
PREFAZIONE XVII
Infine anche nel Detto si mostra quella medesima sicura e perfetta conoscenza dell’ intiero Roman de la Rose, che per- mette al poeta del Fiore, mentre traduce o rifà tratti delle prime migliaia di versi, di adoperare tratti di migliaia lon- tane o anche proprio delle ultime. Certo, non si potrà pre- tendere-che in 480 versi, e versi di quella specie, e versi che sì riferiscono soltanto ai primi episodii, se ne trovino prove ‘abbondanti come negli oltre 3000 endecasillabi del Fiore; tanto più che anche questi mostrano di comportarsi diversa- mente secondo le circostanze più o meno favorevoli, non offrendo chiari esempii di quella singolare contaminazione se non a un dipresso nel primo terzo dell’opera. Ma in che modo un bravo e diligente studioso ha potuto riprender da capo e sostenere l’ assurda asserzione che nel Detto non si trovino traccie se non della prima parte del Roman de la Rose, la parte di Guglielmo di Lorris? Purtroppo, egli non 8° è contentato di questo, e non giova discutere. La verità è, in un certo senso, il contrario: il poeta del Detto probabil- mente 8’ è ispirato proprio alla seconda parte, in quello ch’ è almeno il carattere più appariscente della sua operetta, la rima equivoca con le sue complicazioni. Dì questa sono rari e occasionali gli esempi nella parte del de Lorris; diventano invece frequenti in quella di Jean de Meun, che, sotto il ri- spetto tecnico, rima in maniera ben più ricca del suo prede- cessore, mirando spesso all’uguaglianza anche della sillaba precedente a quella che porta l’accento.1 Ma, senza insi- stere su ciò, e ritornando a quelle combinazioni di passi lontani, il poeta del Detto d'Amore, per quanto gli permet- tono i brevi confini e le catene in cui è stretto, mostra di compiacersene poco meno che il poeta del Fiore. Egli, per
1 Un passo qualunque: 15152-83, ‘bouton: glouton, recroie: recroie, porchacier: por chacier, estrange: s’en estrange, m’avés mesfait: de ce mersfait, (coupe: soupe), en pire point: s’il l’aime point, déporter: de porter, ou pis: acoupis, (chamberière : chière), somes: quex homes, nostre court: la dame court, (besoingne: repoingne), en huche: rehuche;, là venue: sa venue, espoir: désespoir *. Non rari gli esempi come: ‘de fin or: ne me fine or ?, 10025-6, ‘ par le cors Dé: de cordé ’, 10045-6, ‘ orent or chier: escorchier’, 10317 -8, ‘conforté: confort 6’, 10749-50, ‘volenté: talent 6”, 11767-8, ecc.
XVIII PREFAZIONE
esempio, fonde insieme le due esposizioni dei comandamenti '
— d’Amore, e anche dalla seconda, quella di Jean de Meun, benchè si riduca a 10 versi (11154-63), toglie direttamente alcuni de’ suoi settenarii (404-5; 439-40): convien che .... pro’ salute e doni e rendi. Della persona conto ti tieni. Al breve decalogo di Jean precedono le parole di Amore, dove rincora l’amante, queste fra le altre (11143-5):
g' el te pardon plus par prière que par don, car ge n’en voil argent ne or;
e anche la loro eco è facilmente riconoscibile in alcuni versi del poemetto, che però ci fanno fare un salto indietro, dalla fine al principio (26-31):
«I’ t'affermo |, di ciò che tu domandi, sanza che tu don mandi; e donati in presente, i sanz’esservi presente di fino argento o d’oro.
In un altro punto, là dove il poeta del Detto riproduce a
modo suo certi discorsi di ‘Richesse ’ al riguardo di ‘ Po- .
vreté ’ e del suo legittimo figliuolo ‘ Larrecin ’, destinato a finir sulle forche (Roman, fine del decimo migliaio), si leg- gono due versi, di cui si credette di “Poter fare onore a lui stesso (341-2):
e danza a suon di vento, sanz’aver mai avento;
PREFAZIONE XIX
ma essi invece risalgono a un tratto anteriore del Roman, al lontano, interminabile discorso di ‘Raison ’, dove si ri- feriscono.... a Creso (7259-60):
et quand serés pendus au vent, sans couverture et sans auvent.
Mi dispiace un poco per il malcapitato poeta di avergli in qualche modo tolto anche i due soli versi almeno relati- ‘vamente belli, che, a quanto fu affermato, gli sia riuscito di scrivere; ma merita di esser notato un procedimento così singolare, così senza dubbio individuale e in fin de’ conti da uomo d°’ ingegno e da artista. Lo compenseremo quanto ci è lecito, esprimendo il nostro parere che egli fosse tutt’altro che un poeta spregevole. Basta, per apprezzare conveniente- mente la virtuosità di cui ha fatto sfoggio, confrontare i mi- serabili risultati di consimili esperimenti di rime equivoche, a cui osarono cimentarsi altri verseggiatori suoi contem- poranei; e basta, per giudicare equamente delle sue doti di artista culto e fine, pensare ad un’altra traduzione o ri- duzione di scritture francesi, contemporanea e anch’ essa non senza traccie del ‘ dolce stil nuovo ’, l’Intelligenza, dove qua e là balena un certo ingegno, ma grande è quasi sempre, non dico la sciatteria, ch’ è un’altra cosa, ma la grossolanità dell’artista.
Sarebbe davvero un bel caso se due autori sembrassero sotto tutti gli aspetti così perfettamente gemelli, senza es- sere ben più che gemelli; e a questo caso noi ci rifiutiamo di credere. Anche l’unione, certamente originaria, de’ due poe- metti in un unico manoscritto, palesa ora il suo vero signi- ficato; anche il destino ch’ebbero in comune di sparire da ‘ogni memoria. Rimasero nascosti in un autografo, posseduto dalla famiglia dell’autore, e solo per qualche caso singolare accadde che se ne potesse trarre una o due copie? È inutile fare supposizioni; ma certo è che un poemetto non può scom- pagnarsi dall’altro, e che se si attribuisce il Fiore a Dante, o Durante, Alighieri, conviene anche attribuirgli il Detto d’Amore. E qui è naturale che i più, inquieti e sorpresi,
XX . PREFAZIONE
esclamino: troppa grazia ! S° è però formata una tradizione, permangono dubbii e convinzioni non illegittime; e questo dà sufficiente ragione del nostro volumetto, in quanto esso abbia l'ambizione di formare un’ ‘ Appendice’ al memo- rabile volume, col quale i dantisti italiani hanno durevol- mente celebrato il sesto centenario del Poeta. Come v’ è un’ ‘ Appendice virgiliana’ è giusto e naturale che vi sia un’ ‘ Appendice dantiana ’. Poiché questi semidei terreni hanno il privilegio che qualunque cosa sia stata sfiorata dal loro alito d’ambrosia, fruisce di una particella della loro immortalità.
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IL FIORE
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IL FIORE
I
[LE SAETTE D'AMORE].
Lo Dio d’amor con su’ arco mi trasse perch’ i’ guardava un fior che m’abbellia, lo quale avea piantato Cortesia 4 nel giardin di Piacer; e que’ vi trasse sì tosto, ch’a me parve che volasse, e disse: «I° sì ti tengo in mia balìa». Allor gli piacque, non per voglia mia, 8 che di cinque saette mi piagasse. La prima ha nom Bieltà : per li occhi il core mi passò ; la seconda, Angelicanza : i 11 quella mi mise sopra gran freddore ; la terza, Cortesia fu, san dottanza; la quarta, Compagnia, che fè dolore; 14 la quinta appella l’uon Buona Speranza.
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II.
L’AMANTE E AMORE.
Sentendomi ismagato malamente
del molto sangue ch’ io avea perduto,
e non sapea dove trovar aiuto,
lo Dio d’amor sì venne a me presente,
e dissemi: «Tu sai veramente
che tu mi se’ intra le man caduto
per le saette di ch’ i° t’ ho feruto,
sì che convien che tu mi sie ubbidente ». Ed i’ risposi: « I’ sì son tutto presto
di farvi pura e fina fedeltate,
più ch’Assessino al Veglio o a Dio il Presto ».
E quelli allor mi puose in veritate
la sua bocca a la mia, sanz’altro arresto,
e disse : « Pensa di farmi lealtate ».
III.
L’AMANTE E AMORE.
Del mese di gennaio, e non di maggio, fu quand’ i’ presi Amor a signoria, e ch’ i’ mi misi al tutto in sua balia e saramento gli feci e omaggio; e per più sicurtà gli diedi in gaggio il cor, ch’ e’ non avesse gelosia ched i’ fedel e puro i’ no gli sia,
e sempre lui tener a segnor maggio. Allor que’ prese il cor e disse : « Amico, i’ son segnor assa’ forte a servire; ma chi mi serve, per certo ti dico, ch’ a la mia grazia non può già fallire, -
e di buona speranza il mi notrico insin ch’ i’ gli fornisca su’ disire ».
IL FIORE
IV.
L'AMANTE E AMORE.
Con una chiave d’or mi fermò il core l’Amor, quando così m’ebbe parlato ; ma primamente l’ ha nett’e parato, 4 sì ch’ogni altro pensier n’ ha pinto fore.
E po’ mi disse: « I’ sì son tu’ signore,
e tu sì se’ di me fedel giurato :
or guarda che ’1 tu’ cuor non sia ’mpacciato 8 se non di fino e di leal amore.
E pensa di portar in pacienza la pena che per me avra’ a soffrire,
11 innanzi ch’ io ti doni mia sentenza; chè molte volte ti parrà morire : un’ora gioia avrai, altra, doglienza ;
‘14 ma poi dono argomento di guerire ».
V.
L'AMANTE E AMORE.
Con grande umilitate e pacienza promisi a Amor a sofferir sua pena, e ch'ogne membro, ch’ i avea, v vena 4 disposat’ era a farli sua voglienza. E solo a lui servir la mia credenza è ferma, nè di ciò mai non allena : insin ched 1° avrò spirito o lena, 8 i non farò da ciò già ma’ partenza. E quelli allor mi disse : « Amico meo, i ho da te miglior pegno che carte: 11 fa che m’adori, ched i’ son tu’ Deo ; ed ogn’altra credenza metti a parte, nè non creder nè Luca, nè Matteo, 14 nè Marco, nè Giovanni ». Allor si parte.
6 IL FIORE
VI.
L'AMANTE E LO SCHIFO.
Partes’ Amore su’ ale battendo e ’n poca d’or sì forte isvanoio ched i’ nol vidi poi nè no ll’ udio, 4 e lui e ’1 su’ soccorso ancor attendo. Allor mi venni forte ristrignendo verso del fior che sì forte m’ulio, e per cu’ feci omaggio a questo Dio, 8 e dissi: ‘ Chi mi tien ched i’ nol prendo ? ’ Sì ch’i’ verso del fior tesi la mano, credendolo aver colto chitamente ; 1 ed i’ vidi venir un gran villano con una mazza, e disse: « Or ti ste’ a mente ch’ i’ son lo Schifo, e sì son ortolano 14 d’esto giardin. I’ ti farò dolente! ».
VII. L’AMANTE.
Molto vilmente mi buttò di fora lo Schifo, crudo, fello e oltraggioso, sì che del fior non cred’ esser gioioso,
4 se Pietate e Franchezza no ll’accora. Ma prima, credo, converrà ch’ eo mora; per che ’1 me’ core sta tanto doglioso di quel villan, che stava là nascoso,
x di cu’ non mi prendea guardia quell’ora.
Or m'ha messo in pensero e in dottanza di ciò ched i’ credea aver per certano,
11 sì ch’'or me ne par essere in bilanza.
E tutto ciò m’ ha fatto quello strano ! Ma di lui mi richiamo a Pietanza, 14 che venga a lui collo spunton in mano.
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VIII. L’AMANTE.
Se mastro Argus che fece la nave, in che Giason andò per lo tosone, (e fece a conto regole e ragione 4 e le diece figure, com’ on save), vivesse, gli sarebbe forte e grave multiplicar ben ogne mia quistione ch’Amor mi move, sanza mesprigione. 8 E di ciascuna porta esso la chiave, ed hàllemi nel cor fermate e messe, con quella chiavicella ch’ i’ v° ho detto, 11 per ben tenermi tutte sue promesse. Per ch’ io a sue merzè tuttor mi metto, ma ben vorre’ che, quando gli piacesse, 14 e’ m’alleggiasse il mal che sì m' ha stretto.
IX.
L'AMANTE E RAGIONE.
Dogliendomi in pensando del villano che sì vilmente dal fior m’ ha lungiato, ed i° mi riguardai dal dritto lato, 4 e sì vidi Ragion col viso piano venir verso di me, e per la mano mi prese e disse: « Tu se’ sì smagrato ! I’ credo che tu ha’ troppo pensato 8 a que’ che ti farà gittar in vano, ciò è Amor, a cui dat’ hai fidanza. Ma se m’avessi avuto al tu’ consiglio, 11 tu non saresti gito co llu’ a danza; chè sie certano, a cu’e’ dà di piglio, egli ’1 tiene in tormento e malenanza, 14 ‘sì che su’ viso non è mai vermiglio ».
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X. L’AMANTE.
Udendo che Ragion mi gastigava perch’ i’ al Die d’amor era ’nservito, di ched i’ era forte impalidito 4 e sol perch’ io a lui troppo pensava, i le dissi: « Ragion, e’ non mi grava su’ mal, ch’ i’ ne sarò tosto guerito, chè questo mio signor lo m°’ ha gradito », 8 e ch'era folle se più ne parlava : « chèd i’ son fermo pur di far su’ grado, perciò che mi promise fermamente 11 ched e’ mi metterebbe in alto grado, sed i’ ’1 servisse bene e lealmente »; per che di lei i non pregiava un dado, 14 nè su’ consiglio i’ non teneva a mente.
XI. L’AMANTE E L'AMICO.
+. Ragion si parte, udendomi parlare, e me fu ricordato ch’ i’ avea un grande amico, lo qual mi solea 4 in ogne mio sconforto confortare. Sì ch’ i° nol misi guari a ritrovare, e dissigli come si contenea lo Schifo ver di me, e che parca 8 ch’ al tutto mi volesse guerreggiare. E que’ mi disse : « Amico, sta sicuro, chè quello Schifo si ha sempre in usanza 11 ch’al cominciar si mostra acerbo e duro. Ritorna a lui e non abbie dottanza: con umiltà tosto l’avra’ maturo, 14 già tanto non par fel nè san pietanza ».
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XII. L'AMANTE. ©
Tutto pien d’umiltà verso 1 giardino
torna’ mi, com’Amico avea parlato,
ed i’ guardai e sì ebbi avvisato
lo Schifo, con un gran baston di pino, ch’andava riturando ogne cammino, che dentro a forza non vi fosse ’ntrato. Sì ch’ io mi trassi a lui, e salutato umilemente l’ebbi a capo chino,
sì gli dissi: « Schifo, aggie merzede
di me, se ’nverso te feci alcun fallo, chèd i’ sì son venuto a pura fede
a tua merzede, e presto d’ammendallo ». Que’ mi riguarda, e tuttor si provede, ched i’ non dica ciò per ingannallo.
XIII.
FRANCHEZZA.
Sì com’ 1 stava in far mia pregheria
a quel fello ch’ è sì pien d’arditezza, lo Dio d’amor sì vi mandò Franchezza, co llei Pietà, per sua ambasceria. Franchezza cominciò la diceria,
e disse : « Schifo, tu fai stranezza
a quel valletto ch’ è pien di larghezza e prode e franco, sanza villania.
Lo Dio d’amor ti manda che ti piaccia
che tu non sie sì strano al su’ sergente, chè gran peccato fa chi lui impaccia ; ma sòffera che vada arditamente
per lo giardino e nol metter in caccia, e guardi il fior che sì gli par aolente ».
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XIV. PIETÀ.
Pietà cominciò poi su’ parlamento, con lagrime bagnando il su’ visaggio, dicendo : « Schifo, tu faresti oltraggio di non far grazia al meo domandamento. Pregher ti fo che ti sia piacimento ch’a quel valletto, ch’ è sì buon e saggio, tu non sie verso lui così salvaggio. chè sai che non ha mal intendimento. Or avem detto tutto nostr’ affare, e la cagion per che no’ siam venute : molt’ è crudel chi per noi non vuol fare! Ancor ti manda molte di salute il lasso cu’ ti piacque abbandonare. Fa che nostre preghiere i sian valute! »
XV.
Lo ScHIFo.
Lo Schifo disse: « Gente messaggere, egli è ben dritto ch’a vostra domanda i faccia grazia, e ragion lo comanda; chè voi non siete orgogliose nè fiere, ma siete molto nobili parliere. Venga il valletto e vada, a sua comanda; ma non ched egli al fior sua mano ispanda, ch’a ciò no gli varrian vostre preghiere ; perciò che la figliuola Cortesia, Bellaccoglienza, ch’ è dama del fiore, sì Pl mi porrebbe a gran ricredentia. Ma fate che la madre al Die d’amore faccia a Bellaccoglienza pregheria di lui, e che le scaldi un poco il core ».
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XVI.
L’AMANTE E LO SCHIFO.
Quand’ i’ vidi lo Schifo sì addolzito, che solev’esser più amar che fele ed i’ ’1 trova’ vie più dolce che mele, sappiate ch’ i° mi tenni per guerito. Nel giardin me n’andai molto gicchito per dotta di misfar a quel crudele, e gli giurai a le sante Guagnele che per me non sarebbe mai marrito. Allor mi disse : « I’ vo’ ben che tu venghi dentr’ al giardino, sì come ti piace, ma che lungi dal fior le tue man tenghi. Le buone donne fatt’ hanno far pace tra me e te: or fa che la mantenghi, sì che verso di me non sie fallace ».
XVII. VENUS. Venusso, ch’ è soccorso degli amanti, venn’ a Bellaccoglienza col brandone, e sì ’l1 recava a guisa di pennone per avvampar chiunque l’ è davanti. A voler raccontar de’ suo’ sembianti e de la sua tranobile fazzone, sarebbe assai vie più lungo sermone ch'a sermonar la vita a tutti i Santi. Quando Bellaccoglienza sentì ’1 caldo di quel brandon, che così l’avvampava, sì tosto fu ’1 su’ cuor col mio saldo ; e Venussò, ch’a ciò la confortava, si trasse verso lei col viso baldo, dicendo che ver me troppo fallava.
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XVIII.
VENUS E BELLACCOGLIENZA.
«Tu falli troppo verso quell’amante »
disse Venusso « che cotanto t’ama;
ned i° non so al mondo sì gran dama che di lui dovess’esser rifusante :
ch’egli è giovane, bello e avvenante, cortese, franco e pro’ di buona fama. Promettili un basciar, e a te 1 chiama, chè non ha uom nel mondo più celante ».
Bellaccoglienza disse: « I’ vo’ che vegna,
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e basci il fior che tanto gli è ’n piacere, ma’ ched e’ saggiamente si contegna ;
chè siate certa che non m'è spiacere. »
— «Or gli ne manda alcuna buona ’nsogna » disse Venus «e fagliele assapere ».
XIX. L’AMANTE.
Per Bel-Sembiante e per Dolze-Riguardo
mi mandò la piacente ch’ i’ andasse
nel su’ giardin e ch’ io il fior basciasse ; nè non portasse già lancia nè dardo, chè lo Schifo era fatto sì codardo
che non mi bisognava ch’ i’ ’1 dottasse ; ma tuttor non volea ched i’ v’entrasso, sed e’ non fosse notte ben a tardo.
« Perciò che C'astità e Gelosia
sì hanno messo Paura e Vergogna
in le’ guardar, che non faccia follia ;
ed un villan che truov’ ogne menzogna la guarda, il qual fu nato in Normandia, Malabocca, que’ ch'ogne mal sampogna ».
IL FIORE
XX.
L'AMANTE E BELLACCOGLIENZA.
Udendo quella nobile novella che que’ genti messaggi m’apportaro, sì fortemente il cuor mi confortaro 4 . che di gioia perde’ quasi la favella. Nel giardin me n’anda’ tutto ’n gonnella, sanz’armadura, come comandaro, e sì trovai quella col viso chiaro, 8 Bellaccoglienza. Tosto a sè m’appella, e disse: « Vien’ avanti e bascia ’1 fiore; ma guarda di far cosa che mi spiaccia, 11 chè tu ne perderesti ogne mio amore ». Sì ch’ i’ allor feci croce de le braccia, e sì ’1 basciai con molto gran tremore, 14 sì forte ridottava suo minaccia.
XXI. L’AMANTE.
Del molto olor ch’ al cor m’entrò basciando.
quel prezioso fior, che tanto aulia, contar nè dir per me non si poria ;
4 ma dirò come ’] mar s’andò turbando per Malabocca, quel ladro normando, che se n’avvide e svegliò Gelosia e Castità, che ciascuna dormia ;
8 per ch’ i' fu’ del giardin rimesso in bando.
E sì vi conterò de la fortezza dove Bellaccoglienza fu ’n pregione,
11 ch’Amor abbattè poi per su’ prodezza ; e come Schifo mi tornò fellone e lungo tempo mi tenne in distrezza,
14 e come ritornò a me Ragione.
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XXII. CASTITÀ. Castità, che da Veno è guerreggiata, sì disse a Gelosia : « Per Dio, merzede! S’a questo fatto l’uon non ci provede,
4 i’ potre’ ben tosto essere adontata. Vergogna e Paor m’ hanno abbandonata: in quello Schifo, folle chi si crede, ch’ i’ son certana ch’e’ non ama a fede,
8 po’ del giardin sì mal guardò l’entrata ;
onde vo’ siete la miglior guardiana ch’ i ’n esto mondo potesse trovare.
11 Gran luogo avete in Lombardia e ’n Toscana. Per dio, ched e’ vi piaccia il fior guardare ! Chè se que’ che ’1 basciò punto lo sgrana,
14 non fia misfatto ch’uon poss’ammendare ».
XXIII.
GELOSIA.
Gelosia disse : « IP prendo a me la guarda, ch’a ben guardar il fior è mia credenza, ch’ i avrò gente di tal provedenza ched i’ non dotto già che Veno gli arda ». Al giardin se n’andò fier’ e gagliarda, ed ivi sì trovò Bellaccoglienza e dissele: « Tu ha’ fatta tal fallenza
8 ch’ i’ ti tengo per folle e per musarda.
Ed a voi dico, Paur’ e Vergogna, che chi di fior guardar in voi si fida
11 certa son che non ha lett’ a Bologna.
E quello Schifo che punt’ or non grida, gli varria me’ che fosse in Catalogna,
14 sed e’ non guarda ben ciò ch’ egli ha ’n guida ».
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XXIV.
VERGOGNA.
Vergogna contra terra il capo china, che ben s’avvide ch’ella avea fallato ; e d’un gran velo il viso avea velato ; 4 e sì disse a Paura sua cugina: « Paura, no’ siam messe nell’aina di Gelosia, e ciò ci ha procacciato lo Schifo, perch’egli ha corteseggiato 8 al bel valletto ch’ i’ vid’ ier mattina. Or andiam tosto e troviam quel villano, e gli direm come fia mal balito, | 11 se Gelosia gli mette addosso mano; ch’egli ha ’n ben guardar troppo fallito, che sì de’ esser a ciascuno strano, 14 e ’1 diavol sì l’ ha ora incortesito ».
XXV.
VERGOGNA E PAURA.
Per lo Schifo trovar ciascun’ andava per dirli del misfatto molto male; e que’ s’avea fatto un capezzale 4 d’un fascio d’erba e sì sonniferava. Vergogna forte mente lo sgridava ; Paura d’altra parte sì l’assale, dicendo : « Schifo, ben poco ti cale 8 che Gelosia sì forte ne grava ! E ciò ci avvien per te, quest’ è palese, quando tu per la tua mala ventura 11 tu vuogli intender or d’esser cortese. ‘Ben sa’ ch’e’ non ti move di natura! Con ciaschedun de’ star a le difese, 14 per ben guardar questa nostra chiusura ».
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XXVI..
Lo ScHIro.
Lo Schifo, quando udio quel romore, conobbe ben ched egli avea mispreso : sì disse: « Il diavol ben m’avea sorpreso, 4 quand’ io a nessun uom mostrav’amore. Ma s’ i’, colui che venne per lo fiore, il posso nel giardin tener mai preso, i’ sia uguanno per la gola impeso, 8 sed i’ nol fo morir a gran dolore ». Allor ricigna il viso e gli occhi torna, e troppo contra me tornò diverso : 11 del fior guardar fortemente s’attorna. . Ahi lasso, ch’or mi fu cambiato il verso! In poca d’or sì ’1 fatto mi bistorna 14 che d’abate tornai men ch’a converso.
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XXVII.
GELOSIA.
Gelosia che stava in sospeccione ch’ella del fior non fosse barattata, sì fè gridar per tutta la contrata 4 . ch’a lei venisse ciascun buon mazzone : ch’ella volea fondar una pregione dove Bellaccoglienza fia murata ; chè ’n altra guardia non fie più lasciata, 8 po’ ch’ella l’ ha trovata in mesprigione : « Chè la guardia del fior è perigliosa ; sì saria folle se ’llei mi fidasse 11 per la bieltà ch’ ha ’n lei maravigliosa ». E se Venus ancor la vicitasse, di ciò era certana e non dottosa 14 che converrebbe ch’ella il fior donasse.
IL FIORE
XXVIII. L’AMANTE.
Gelosia fece fondar un castello con gran fossi dintorno e barbacani, chè molto ridottava uomini strani, 4 sì facev’ella que’ di su’ ostello. E nel miluogo un casser fort’ e bello, che non dottava assalto di villani, fece murare a’ mastri più sovrani 8 di marmo lavorato ad iscarpello. F. sì vi fece far quattro portali con gran torri di sopra imbertescate, 11 ch’ unque nel mondo non fur fatte tali ; e porte caditoie v’ avea ordinate che venian per condotto di canali : 14 l’altr’eran tutte di ferro sprangate.
XXIX.
L'AMANTE.
Quando Gelosia vide il castel fatto, sì si pensò d’avervi guernimento ; ched e’ non era suo intendimento 4 di renderlo per forza ned a patto. Per dare a’ suo’ nemicì mal attratto, vi mise dentro gran saettamento, e pece e olio e ogn’ altro argomento 8 per arder castel di legname o gatto, s’&lcun lo vi volesse approssimare ; chè perduti ne son molti castelli 11 per non prendersi guardia del cavare. Ancor fè far trabocchi e manganelli, per li nemici lungi far istare 14 e servirli di pietre e di quadrelli.
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18 IL FIORE
XXX, L’AMANTE.
Quand’ ell’ ebbe il castel di guernigione fornito sì com’egli era mestiere, ad ogne porta mise su’ portiere,
4 de’ più fidati ch’avea in sua magione. E perch’ella dottava tradigione, mise lo Schifo in sul portal primiere, perch’ella il sentia aspro cavaliere ;
8 al secondo la figlia di Ragione,
ciò fu Vergogna, che fè gran difensa ; | la terza porta sì guardò Paura,
11 ch’ iera una donna di gran provedenza ; al quarto portal, dietro da le mura, fu messo Malabocca, la cu’ intenza
14 ferm’ iera a dir mal d’ogne criatura.
XXXI. L’AMANTE.
Bellaccoglienza fu nella fortezza, per man di Gelosia, mess’ e fermata : ad una vecchia l’ebbe accomandata 4 che la tenesse tuttor in distrezza ; ch’ella dottava molto su’ bellezza, che Castità ha tuttor guerreggiata, e Cortesia, di cu’ era nata, 8 no lle facesse far del fior larghezza. Ver è ched ella sì 1 fece piantare là ’ve Bellaccoglienza era ’n pregione, 11 ch’altrove nol sapea dove fidare. Lassù non dottav’ella tradigione, | chè quella vecchia, a cu’ ’l1 diede a guardare, 14 sì era del lignaggio Salvagnone.
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IL FIORE
XXXII. L'AMANTE.
Gelosia andava a proveder le porte : sì trovava le guardie ben intese, contra ciascuno star a le difese e per donar e per ricever morte. E Malabocca si sforzava forte in ogne mi’ sacreto far palese. Que fu’1 nemico che più mi v’affese, ma sopra lui ricaddor poi le sorte. Que’ non finava nè notte nè giorno a suon di corno gridar : « Guarda, guarda! »; e giva per le mura tutto ’ntorno dicendo : « Tal è putta e tal si farda, e la cotal ha troppo caldo il forno, e l’altra follemente altru’ riguarda ».
XXXIII. L’AMANTE.
Quand’ i’ vidi i marosi sì ’nforzare per lo vento a Provenza che ventava, ch’alberi e vele e ancole fiaccava e nulla mi valea il ben governare, fra me medesmo comincia’ a pensare ch'era follia se più naviceva, se quel mal tempo prima non passava che dal buon porto mi facea lungiare. Sì ch’ i’ allor m’ancolai a una piaggia, veggendo ch’ i’ non potea entrar in porto : la terra mi parea molto salvaggia. Ivi vernai con molto disconforto. Non sa che mal si sia chi non assaggia di quel d’Amor, ond'’ i’ fu’ quasi morto.
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XXXIV.
L'AMANTE.
Pianto, sospiri, pensieri -e affrizione ebbi vernando in quel salvaggio loco; che pena del ninferno è riso e gioco 4 ver quella ch’ i’ soffersi a la stagione : | ch’'Amor mì mise a tal distruzione che non mì diè soggiorno assa’ nè poco ; un’ or mi tenne in ghiaccio, un’altra ’n foco : 80 molto m’attenne ben sua promessione! Ma non di gioia nè di nodrimento ; ch’ e’ di speranza mi dovea nodrire 11 insin ched e’ mi desse giuggiamento : digiunar me ne fece, a ver vo’ dire ! Ma davami gran pezze di tormento, 14 con salsa stemperata di languire.
XXXV.
L’AMANTE EF RAGIONE.
Languendo lungiamente in tal manera, e’ non sapea ove trovar soccorso, chè ’1 tempo fortunal che m’era corso 4 m’avea gittato d’ogne bona spera. Allor tornò a me, che lungi m’era, Ragion la bella, e disse: «Tu se’ corso, se tu non prendi in me alcun ricorso, 8 po’ che Fortuna è ’nverso te sì fera. Ed i’ ho tal vertù dal mi’ segnore che mi criò, ch’ i’ metto in buono stato 11 chiunque al mi’ consiglio ferma il core; e, di Fortuna che t’ ha tormentato, se vuogli abbandonar il Die d’amore, 14 tosto t’avrò co llei pacificato ».
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XXXVI. L’AMANTE.
Quand’ i’ udi’ Ragion che ’1 su’ consiglio mi dava buon e fin, sanza fallace, dicendo di trovarmi accordo e pace 4 con quella che m’avea messo ’n assiglio, i' le dissi: « Ragion. vecco ch’ i’ piglio ! Ma non ch’ i’ lasci il mi’ signor verace; ched i’ son su’ fedel e sì mi piace 8 tanto ch’ i’ l'amo più che padre figlio. Onde di ciò pensar non è mestero nè tra no’ due tenerne parlamento, 11 chè non sarebbe fatto di leggero, perciò ch’ i’ falseria mi’ saramento. Megli’ amo di Fortuna esser guerrero 14 ched i’ a ciò avesse pensamento ».
XXXVII. RAGIONE. — « Falsar tal saramento è san peccato, poi ten ciascun, secondo Dicretale, che, se l’uon giura di far alcun male, 4 s° e’ se ne lascia, non è pergiurato. Tu mi proposi che tu se’ giurato a questo Dio, che t’ ha condotto a tale ch’ogne vivanda mangi sanza sale, 8 sì fortemente t’ ha dissavorato. E sì si fa chiamar il Die d’amore! Ma chi così l’appella fa gran torto, 11 chè su’ sornome dritto sì è Dolore. Or ti parti da lui, o tu se’ morto, né nol tener già ma’ più a signore, 14 e prendi il buon consiglio ch’ i’ t’ apporto ».
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XXXVIII. L’AMANTE.
— « Ragione, tu sì mi vuo’ trar d’amare e di’ che questo mi’ signor è reo, e che non fu d’amor unquanche Deo, 4 ma di dolor, secondo il tu’ parlare. Da lui partir non credo ma’ pensare, nè tal consiglio non vo’ creder eo, chèd egli è mi’ segnor ed i’ son seo 8 fedel ; sì è follia di ciò parlare. Per che mi par che’ tu’ consiglio sia fuor di tu’ nome troppo oltre misura, 11 chè sanza amor non è altro che nuia. Se Fortuna m’ ha tolto or mia ventura, ella torna la rota tuttavia,
14 e quell’ è quel che molto m’assicura ».
XXXIX. RAGIONE.
— «Di trarreti d’amar non è mia ’ntenza » disse Ragion, «nè da ciò non ti butto, ch’ 1° vo’ ben che tu ami il mondo tutto,
4 fermando in Gieso Cristo tu’ credenza. E s’ad alcuna da’ tua benvoglienza, non vo’ che l’ami sol per lo disdutto nè per diletto, ma per trarne frutto,
8 chè chi altro ne vuol cade in sentenza.
Ver è ch’egli ha in quell’opera diletto, che Natura vi mise per richiamo,
11 per più sovente star con esse in letto; chè se ciò non vi fosse, ben sappiamo che poca gente porrebbe già petto
14 al lavorio che cominciò Adamo ».
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XL. L'AMANTE.
Se
I’ le dissi: « Ragion, or sie certana,
po’ che Natura diletto vi mise
in quel lavor, ched ella nol v’assise già per niente, chè non è sì vana. Ma per continuar la forma umana
sì vuol ch’uon si diletti in tutte guise per volontier tornar a quelle assise, chè ’n dilettando sua semenza grana.
Tu va’ dicendo ch’ i’ non mi diletti,
mad i’ per me non posso già vedere che sanza dilettar uon vi s’assetti ° a quel lavor! Per ch’ i’ ho fermo volere di dilettar col fior non me ne getti. Faccia Dio po’ del fiore su’ piacere ! »
XLI. :
RAGIONE.
— «Del dilettar non vo’ chiti tua parte »
disse Ragion «nè che sie sanz’amanza, ma vo’ che prendi me per tua ’ntendanza; chè tu non troverai in nulla parte
di me più bella (e n’aggie mille carte),
nè che ti doni più di dilettanza.
Degna sarei d’esser reina in Franza :
sì fa’ follia, s' tu mi getti a parte.
Ch’ i’ ti farò più ricco che Ricchezza,
sanza pregiar mai rota di Fortuna, ch’ella ti possa mettere in distrezza.
Se ben mì guardi, in me non ha nessuna fazzon che non sia fior d’ogne bellezza ; più chiara son che non è sol nè luna ».
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XLII.
L'AMANTE.
— «Ragion, tu sì mi fai larga profferta del tu’ amor e di te, ma i’ son dato del tutto al fior, il qual non fia cambiato per me ad altr’amor: di ciò sie certa. Nè non ti vo’ parlar sotto coverta ; chè, s’ 1° mi fosse al tutto a te gradato, certana sie ch’ i’ ti verre’ fallato, che ch’ i° dovesse aver, o prode o perta.
Allora avre’ fallato a lui e te,
e sì sarei provato traditore,
ched i’ gli ho fatto saramento e fè.
Di questo fatto non far più sentore, chè ’1 Die d’amor m’ ha sì legato a sè che te non pregio, e lui tengo a signore ».
° XLIII.
RAGIONE.
— «Amico, guarda s’ tu fai cortesia di scondir del tu’ amor tal damigella chente son io, che son sì chiara e bella che nulla falta in me si troveria! Nel mi’ visaggio l’uon si specchieria, sì non son troppo grossa nè tro’ grella, nè troppo grande nè tro’ picciolella : gran gioia avrai se m’ hai in tua balia. Ched i’ sì ti farò questo vantaggio, ch’ i’ ti terrò tuttor in ricco stato, sanz’aver mai dolor nel tu’ coraggio E così tenni Socrato beato ; ma mi credette e amò come saggio, di che sarà di lui sempre parlato ».
IL FIORE | 25
XLIV.
RAGIONE.
«Quel Socrato, dond’ i’ ti vo parlando, sì fu fontana piena di salute, della qual derivò ogne salute, 4 po’ ched e’ fu del tutto al me’ comando. . Nè mai Fortuna nol gì tormentando: non pregiò sue levate nè cadute; suo’ gioie e noie per lui fur ricevute, 8 nè ma’ su’ viso non andò cambiando. E bene e mal mettea in una bilanza, e tutto là facea igual pesare 11 sanza prenderne gioia nè pesanza. Per Dio, ched e’ ti piaccia riguardare al tu’ profitto e prendim’ad amanza ! 14 Più alto non ti puo’ tu imparentare ».
XLV.
RAGIONE.
« Ancor non vo’ t’ incresca d’ascoltarmi : — alquanti motti ch’ i’ voglio ancor dire a ritenere intendi e a udire,
4 chè non potresti apprender miglior salmi. Tu sì ha’ cominciato a biasimarmi perch’ i’ l'Amor ti volea far fuggire, che fa le genti vivendo morire,
8 e tu] saprai ancor se no Illo spalmi!
Sed i’ difendo a ciaschedun l’ebrezza, non vo’ che ’1 ber per ciò nessun disami, 11 se non se quello che la gente blezza. I’ non difendo a te che tu non ami, ma non Amor che ti tenga ’n distrezza, 14 e, nella fin, dolente te ne chiami ».
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XLVI. L’AMANTE.
Quando Ragion fu assa’ dibattuta e ch’ella fece capo al su’ sermone, i° sì le dissi: « Donna, tua lezione
4 sie certa ch’ella m’ è poco valuta, perciò ch’ i’ no ll’ ho punto ritenuta, chè non mi piace per nulla cagione; ma, cui piacesse, tal ammonizione
8 sì gli sarebbe ben per me renduta.
Chèd i’ so la lezion tratutta a mente per ripeterl’a gente cu’ piacesse,
11 ma già per me non è savia niente; chè fermo son, se morir ne dovesse, d’amar il fior, e ’1 me’ cor vi s’assente
14 on altro danno ch’avvenir potesse ».
XLVII. L’AMANTE E AMICO.
Ragion si parte, quand’ella m’ intese, sanza più tener meco parlamento, chè trovar non potea nullo argomento 4 di trarmi del laccio in ch'Amor mi prese. Allor sì mi rimisi a le difese co’ mie’ pensieri e fu’ in maggior tormento assa’, ched i’ non fu’ al cominciamento : 8 non mi valea coverta di pavese. Allor sì piacque a Dio che ritornasse Amico a me, per darmi il su’ consiglio. 11 Sì tosto che mi vide, a me si trasse e disse : « Amico, i’ sì mi maraviglio che ciascun giorno dimagre e appasse : 14 dov’ è il visaggio tu’ chiaro e vermiglio ? »
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XLVIII. L'AMANTE.
— «Non ti maravigliar s’ i non son grasso, Amico, nè vermiglio com’ i’ soglio,
ch’ogne contrario è presto a ciò ch’ i’ voglio.
Così Fortuna m’ ha condotto al basso !
Ira e pensier m’ hanno sì vinto e lasso
che non è maraviglia s’ i° mi doglio;
chéd i’ sì vo a fedir a tale iscoglio,
s’Amor non ci provede, ch’ i’ son casso. E ciò m’ ha Malabocca procacciato,
che svegliò Castitate e Gelosia
sì tosto com’ i’ ebbi il fior basciato.
Allor foss’egli stato in Normandia,
nel su’ paese ove fu strangolato,
che sì gli piacque dir ribalderia ! »
XLIX. L’AMANTE E AMICO.
Com'era gito il fatto ebbi contato a motto a motto, di filo in aguglia, al buono Amico, che non fu di Puglia; chè m’ebbe molto tosto confortato, e disse: « Guarda che non sie accettato il consiglio Ragion, ma da te il buglia, che fin’amanti tuttor gli tribuglia con quel sermon di che t’ ha sermonato. Ma ferma in ben amar tutta tua ’ntenza, e guarda al Die d’amor su’ omanaggio, chè tutto vince lungia sofferenza. Or metti a me intendere il coraggio, ched i’ ti dirò tutta la sentenza di ciò che de’ far fin amant’ e saggio ».
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L. AMICO.
«A Malabocca vo’ primieramente che tu sì no gli mostri mal sembiante, ma se gli passe o dimore davante, 4 umile gli ti mostra ed ubbidente. Di te e del tuo gli sie largo offerente e faccia di te come di su’ fante: - così vo’ che lo ’nganni, quel truante 8 che si diletta in dir mal d’ogne gente. Col braccio al collo sì diè on menare il su’ nemico, insin che si’ al giubbetto, 11 co le lusinghe, e po’ farlo impiccare. Or metti ben il cuor a ciò c’ ho detto : di costu’ ti convien così ovrare, 14 insin ch’ e’ sia condotto al passo stretto ».
LI. AmTco.
« Impresso vo’ che tu aggie astinenza di non andar sovente dal castello, nè non mostrar che ti sia guari bello 4 a riguardar là ov’ è Bellaccoglienza ; chè ti convien aver gran provedenza insin che Malabocca t’ è ribello, chè tu sa’ ben ch’egli è un mal tranello 8 che giorno e notte grida. E’ n’ ho già tenza! De l’altre guardie non bisogna tanto guardar, com’ e’ ti fa di Malabocca, 11 ch’elle starian volontier da l’un canto ; ma quel normando incontanente scocca ciò ched e’ sa, ed in piazza ed a santo, 14 e contruova di sè e mette in cocca ».
IL FIORE
LII. AMICO.
«La Vecchia che Bellaccoglienz’ ha ’n guarda servi ed onora a tutto tu’ podere ; chè, s’ella vuol, troppo ti può valere, 4 chèd ella non è folle nè musarda. A Gelosia, che mal fuoco l’arda, fa ’1 somigliante, se la puo’ vedere : largo prometti a tutte de l’avere, 8 ma ’1 pagamento il più che puo’ lo tarda. E se lor doni, dona gioelletti, be’ covriceffi e reti e ’ntrecciatoi 11 e belle ghirlanduzze e ispilletti e pettini d’avorio e rizzatoi, coltelli e paternostri e tessutetti ; 14 chè questi non son doni struggitoi ».
LIII.
AMICO.
«Se non hai che donar, fa gran promessa sì com’ i’ t' ho contato qui davanti, giurando loro Iddio e tutti i Santi 4 ed anche il sacramento della messa,
che ciascuna farai gran baronessa,
tanto darai lor fiorini e bisanti!
Di pianger vo’ che faccie gran sembianti, 8 dicendo che non puo’ viver sanz’essa.
E se tu non potessi lagrimare,
fa che tu aggie sugo di cipolle
11 o di scalogni, e farànnolti fare; o di scialiva gli occhi tu te ’mmolle, s’ad altro tu non puo?’ ricoverare.
14 E così vo’ che ciascheduna bolle ».
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30 i IL FIORE.
LIV. AMICO.
«Se tu non puo’ parlar a quella ch’ami, sì le manda per lettera tu’ stato, dicendo com’ Amor t’ ha sì legato 4 ver lei, che ma’ d’amarla non ti sfami; e le’ dirai : ‘ Per Gieso Cristo, tra’ mi d’esti pensier che m’ hanno sì gravato ! ’ Ma guarda che lo scritto sia mandato 8 per tal messaggio che non vi difami. Ma nella lettera non metter nome ; di lei dirai ‘colui’, di te ‘colei’: 11 così convien cambiar le pere a pome. Messaggio di garzon ma’ non farei, ched e’ v° ha gran periglio, ed odi come: 14 non ha fermezza in lor; per ciò son rei».
LV. Amrtco. |
« E se la donna prende tu’ presente, buon incomincio avra’ di far mercato ; ma se d’un bascio l’avessi inarrato,
4 saresti poi certan del rimanente. E s’ella a prender non è conoscente, anzi t’avrà del tutto rifusato, sembianti fa che sie forte crucciato, 8 e partiti da lei san dir niente.
E poi dimora un tempo san parlarne
e non andar in luogo ov’ella sia, 11 e fa sembiante che non hai che farne. Ell’enterrà in sì gran malinconia che no lle dimorrà sopr’osso carne ; 14 sì sì ripentirà di sua follia ».
IL FIORE
LVI.
AMICO.
« Il marinaio che tuttor navicando va per lo mar, cercando terra istrana, con tutto si guid’ e’ per tramontana, 4 sì va e’ ben le sue vele cambiando ; e per fuggir da terra, o appressando in quella guisa ch’allor gli è più sana, così governa mese e settimana, 8 insin che ’1 mar si va rabbonacciando. Così de’ far chi d’Amor vuol gioire quand’ e’ truova la sua donna diversa : 11 un’ or la de’ cacciar, altra fuggire. Allor sì la vedrà palida e persa, chè sie certan che le parrà morire 14 insin che no ÎIli cade sotto inversa ».
LVII. AMICO.
«Quando fai ad alcuna tua richesta, o vecchia ch’ella sia o giovanzella, o maritata o vedova o pulzella, 4 sì convien che la lingua tua sia presta a le’ lodar suo’ occhi e bocca e testa, e dir che sotto ’1 ciel non ha più bella: ‘ Piacesse a Dio ch'i’ v’avesse in gonnella 8 là ov’io diviserei, in mia podesta ! ’ . Così le’ dei del tutto andar lodando, chèd e’ non è nessuna sì attempata 11 ch’ella non si diletti in ascoltando, e credes’esser più bella che fata. E ’mmantenente pensa a gir pelando 14 ‘ colui che prima tanto l’ ha lodata!»
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LVIII. AMICO.
« Le giovane e le vecchie e le mezzane son tutte quante a prender sì ’ncarnate, che nessun puote aver di lor derrate
4 per cortesia, tanto son villane ; chè quelle che si mostran più umane e non prenden, ti danno le ghignate. Natur’ è quella che le v’ ha fetate
8 sì com’ell’ ha fetato a caccia il cane.
Ver è ch’alcuna si mette a donare; ©
ma ella s’ è ben prima proveduta 11 ch’ella ’1 darà in luogo da doppiare. I lor gioe’ non son di gran valuta, ma e’ son esca per ucce’ pigliare. 14 Guardisi ben chi ha corta veduta! »
LIX. AMICO.
«Se quella cu’ richiedi ti rifiuta, tu sì non perdi nulla in su’ scondetto
se non se solo il motto che l’ hai detto :
4 dello scondir sarà tosto pentuta. Una nel cento non fu mai veduta (ed ancor più che ’1 miglia’ ci ti metto) femina cu’ piacesse tal disdetto,
4 come ch’ella t’assalga di venuta.
Richie’, ch’almen n’avra’ su’ ben volere, con tutto ti vad’ella folleggiando, .
11 chè tu no lle puo’ far maggior piacere. Ma di ciò non de’ gir nessun parlando, se ’n averla non mette su’ podere ;
14 chèd ella se ne va da poi vantando ».
e ET I,
Oa
” = mer. gal sa
IL FIORE
LX.
AMICO.
« E quando tu sarai co llei soletto, prendila tra le braccia e fa al sicuro, mostrando allor se tu se’ forte e duro,
4 e mmantenente le metti il gambetto. Nè no lla respittar già per su’ detto : s’ella chiede merzè, cheggala al muro. Tu le dirai: ‘Madonna, i’ m’assicuro
8 a questo far, ch'Amor m'’ ha sì distretto
i d? vo’, ched i’ non posso aver soggiorno ; per che convien che vo’ aggiate merzede
11 di me, che tanto vi son ito intorno ; chè siate certa ched i’ v’amo a fede, nè d’amar voi già mai non mi ritorno,
14 chè per voi il me’ cor salvar si crede’ ».
LXI.
AMICO.
« E se tu ami donna ferma e saggia, ben saggiamente e fermo ti contieni, ch’avanti ch’ella dica : ‘ Amico, tieni 4 delle mie gioie ’, più volte t’assaggia. E se tu ami femina volaggia, volaggiamente davanti le vieni e tutt’a la sua guisa ti mantieni; 8 od ella ti terrà bestia salvaggia, e crederà che tu sie un pappalardo, che sie venuto a lei per ingannarla ; 11 chèd ella il vol pur giovane e gagliardo. La buona e saggia ma’ di ciò non parla, anz’ama più l’uom fermo che codardo,
14 chè non dotta che que’ faccia blasmarla ».
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34 IL FIORE
LXII. AMICO.
« Ancor convien che tu sacci’ alcun’ arte per governar e te e la tu’ amica: di buon morse’ tuttor la mì notrica, 4 e dàlle tuttavia la miglior parte. E s°ella vuol andar in nulla parte, sì le di’ : ‘ Va, che Dio ti benedica. In gastigarla non durar fatica, 8 sed al su’ amor non vuo’ tagliar le carte. E se la truovi l’opera faccendo, non far sembiante d’averla veduta ; 11 in altra parte te ne ‘va fuggendo. E se le fosse lettera venuta, | non t’ intrametter d’andar incheggendo 14 chi l’ ha recata nè chi la saluta ».
LXIII.
AMICO.
«S’a scacchi, o vero a tavole giocassi colla tua donna, fa ch’aggie il piggiore . del gioco, e dille ch’ell’ è la migliore 4 dadi gittante, che tu mai trovassi. S’a coderon giocaste, pigni a ambassi, e fa ched ella sia la vincitore: della tua perdita non far sentore, 8 ma che cortesemente la ti passi. Falla seder ad alti, e tu sie basso, e sì l’apporta carello o cuscino ; 11 ‘di le’ servir non ti vegghi mai lasso. S’addosso le vedessi un buscolino, fa che gliel levi, e se vedessi sasso 14 là ’v’ella de’ passar, netta ’1 cammino ».
vo Tre
La dei iù
Fa cai MERITI
IL FIORE
e LXIV. AMICO.
«A sua maniera ti mantien tuttora : chè s’ella ride, ridi, o balla, balla; o s’ella piange, pensa a consolalla, 4 ma fa che pianghe tu sanza dimora. E se con altre donne fosse ancora che giocassero al gioco della palla, s’andasse lungi, corri ad apportalla : 8 a le’ servir tuttor pensa e lavora. E se vien alcun’ or ch’ella ti tenza, I ch’ella ti crucci sì che tu le dai, 11 immantenente torna ad ubbidenza, e giurale che ma’ più nol farai, di quel c’ hai fatto farai penitenza. 14 Prendila e falle il fatto che ti sai! »
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LXV. AmIcO.
«Sovr’ogne cosa pensa di lusinghe, lodando sua maniera e sua fazzone, e che di senno passa Salamone :
4 con questi motti vo’ che la dipinghe. Ma guarda non s’avvegga che t’ infinghe, chè non v’andresti mai a processione ; non ti varrebbe lo star ginocchione :
8 però quel lusingar fa che tu ’l1 tinghe.
Chèd e’ n° è ben alcuna sì viziata che non crede già mai ta’ favolelle,
11 perch’altra volta n’ è stata beffata. Ma queste giovanette damigelle, cu’ la lor terra non è stata arata,
14 ti crederanno ben cota’ novelle ».
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36 IL FIORE
LXVI. AMICO.
«Se tu hai altra amica procacciata, o ver che tu la guardi a procacciare, e sì non vuo’ per ciò abbandonare 4 la prima cu’ ha’ lungo tempo amata, se tu a la novella ha’ gioia donata, sì dì ch’ella la guardi di recare in luogo ove la prima ravvisare 8 no lla potesse, chè seria smembrata. O s’ella ancor ne fosse in sospezzone, fa saramenta ch’ella t’aggi’ a torto, —, 11 ch’unque ver lei non fosti in mesprigione. E s°ella il pruova, convien che sie accorto a dir che forza fu e tradigione. 14 Allor la prendi e sì le ’nnaffia l’orto ».
LXVII.
AmIco.
« E se tua donna cade in malattia, sì pensa che la faccie ben servire, nè tu da lei già mai non ti partire : 4 dàlle vivanda ch’a piacer le sia; e po’ sì le dirai: ‘ Anima mia, istanotte ti tenni in mio dormire intra le braccia, sana, al me?’ disire : 8 molto mi fece Iddio gran cortesia, che mi mostrò sì dolze avisione ’. Po’ dica, ch’ella l’oda, come saggio, 11 che per lei fara’ far gran processione, o tu n’andra’ in lontan pellegrinaggio, se Gieso Cristo le dà guerigione. 14 Così avrai il su’ amor el su’ coraggio ».
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LXVIII. L'AMANTE E AMICO.
Quand’ebbi inteso Amico, che leale consiglio mi donava a su’ podere, i’ sì li dissi: « Amico, il mi’ volere non fu unquanche d'esser disleale ; nè piaccia a Dio ch’ i’ sia condotto a tale, ch’ i’ a le genti mostri ben volere e' servali del corpo e dell’avere, ched i’ pensasse poi di far lor male. Ma sòffera ch’ i’ avante disfidi e Malabocca e tutta sua masnada, sì che neuno in me già mai si fidi: po’ penserò di metterli a la spada ». Que’ mi rispuose: — « Amico, mal ti guidi : cotesta sì non è la dritta strada ».
LXIX. AMICO.
« A te sì non convien far disfidaglia, se tu vuo’ ben civir di questa guerra. Lasciala far a gran signor di terra, che posson sofferir oste e battaglia ! Malabocca, che così ti travaglia,
è traditor : chi ’1 tradisce non erra; chi con falsi sembianti no ll’afferra, il su’ buon gioco mette a ripentaglia.
Se tu lo sfidi o batti, e’ griderà, chèd egli è di natura di mastino : chi più ’1 minaccia, più gli abbaierà. Chi Malabocca vuol metter al chino, sed egli è saggio, egli ’1 lusingherà ;
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chè, certo sie, quell’ è ’1 dritto cammino ».
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38 IL FIORE
LXX. L’AMANTE E AMICO.
— « Po’ mi convien ovrar di tradigione e a te pare, Amico, ch'i’ la faccia, i la farò, come ch’ella mi spiaccia, 4 per venir al di su di quel cagnone. Ma sì ti priego, gentil compagnone, se sai alcuna via che sia più avaccia per Malabocca e’ suo’ metter in caccia, 8 e trar Bellaccoglienza di pregione, che tu sì la mi insegni, ed i’ v’ andrò, e menerò con meco tal aiuto 11 ched i’ quella fortezza abbatterò ». — «E° non ha guari ch’ i’ ne son venuto », rispuose Amico, «ma ’1 ver ti dirò, 14 che s°’ i’ v’ andai, i° me ne son pentuto ».
LXXI. AMICO.
«L’uom appella il cammin Troppo-Donare, e fu fondato per Folle-Larghezza ; l’entrata guarda madonna Ricchezza, 4 che non ì lascia nessun uom passare, se non è su’ parente o su’ compare: già tanto non avrebbe in sè bellezza, . cortesia nè saver nè gentilezza, 8 ched ella gli degnasse pur parlare. Se puo’ per quel cammin trovar passaggio, tu sì abbatterà’ tosto il castello, 11 Bellaccoglienza trarrà’ di servaggio. Non vi varrà gittar di manganello, ned a le guardie lor folle musaggio, 14 porte nè mura, nè trar di quadrello ».
IL FIORE 39
LXXII. Amico.
« Or sì t’ ho detto tutta la sentenza | di ciò che saggio amante far dovria : così l’amor di lor guadagneria,
4 sanz’'aver mai tra lor malivoglienza. Se mai trai di pregion Bellaccoglienza, sì fa che tu ne tenghi questa via, od altrimenti mai non t’ameria
8 che ch’ella ti mostrasse in apparenza.
E dòàlle spazio di poter andare colà dove le piace per la villa :
11 pena perduta seria in le’ guardare ; chè tu terresti più tosto un’anguilla ben viva per la coda, e fossi in mare,
14 che non faresti femina che ghilla ».
LXXIII. L’AMANTE.
Così mi confortò il buon Amico ; po’ si partì da me sanza più dire. Allor mi comincia’ fort’ a gecchire 4° ver Malabocca, il mi’ crudel nemico. Lo Schifo i’ sì pregiava men ch’ un fico, ch’egli avea gran talento di dormire ; Vergogna si volea ben sofferire 8 di guerreggiarmi, per certo vi dico. Ma e’ v’era Paura, la dottosa, ch’udendomi parlar tutta tremava. 11 Quella non era punto dormigliosa : in ben guardar il fior molto pensava; vie più che l’altre guardi’ era curiosa, 14 per ciò che ben in lor non si fidava.
40 IL FIORE
LXXIV. L'AMANTE.
Intorno dal castello andai cercando sed i’ potesse trovar quell’entrata la qual Folle-Larghezza avea fondata, 4 per avacciar ciò che giva pensando. Allor guardai, e sì vidi ombreando di sotto un pin una donna pregiata, sì nobilmente vestita e parata 8 che tutto ’1 mondo gia di lei parlando. E sì avea in sè tanta bellezza che tutto intorno lei alluminava 11 col su’ visaggio, tanto avea chiarezza ; ed un suo amico co llei si posava. La donna sì avea nome Ricchezza, 14 ma lui non so com’altri l’appellava.
LXXV.
L’AMANTE E RICCHEZZA.
Col capo inchin la donna salutai, e sì la cominciai a domandare del cammin ch’uomo appella Troppo-Dare. 4 Quella rispose : « Già per me nol sai; e se ’l sapessi, già non vi ’nterrai, chèd i’ difendo a ciaschedun l’entrare sed e’ non ha che spender e che dare: 8 sì farai gran saver, se te ne vai; ch’unquanche non volesti mi’ accontanza, nè mi pregiasti mai a la tua vita. 11 Ma or ne prenderò buona vengianza; chè, sie certano, se tu m’ hai schernita, i ti darò tormento e malenanza, 14 sì che me’ ti varria avermi servita ».
IL FIORE | 41
LXXVI.
L’AMANTE E RICCHEZZA.
— «Per dio, gentil madonna, e per merzede » le dissi allor «s’ i? ho ver voi fallato, ched e’ vi piaccia ched e’ sia ammendato 4 per me, chèd i’ ’1 farò a buona fede. Ch’ i’ son certan che ’1 vostro cuor non crede com’ io dentro dal mio ne son crucciato ; ma quando vo’ m’avrete ben provato, 8 e’ sarà certo di ciò ch’or non vede. Per ch’ i’ vi priego che mi diate il passo, ched i’ potesse abbatter il castello 11 di Gelosia, che m’ ha sì messo al basso ». Quella mi disse: « Tu se’ mio ribello ; per altra via andrai, chè sara’ lasso 14 innanzi che n’abbatti un sol crinello ».
LXXVII.
L'AMANTE E DIO D’AMORE.
Già non mi valse nessuna preghera ched i’ verso Ricchezza far potesse, chè poco parve che le ne calesse,
4 sì la trovai ver me crudel e fera.
Lo Dio d’amor, che guar lungi non mera, mi riguardò com’ io mi contenesse, e parvemi ched e’ gli ne increscesse : 8 sì venne a me e disse: «In che manera, amico, m’ hai guardato l’omanaggio che mi facesti, passat’ ha un anno?»
11 I° gli dissi: « Messer, vo’ avete il gaggio or, ch’ è il core»m — « E’ non ti fia già danno, chè tu ti se’ portato come saggio :
14 sì avrai guiderdon del grande affanno ».
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IL FIORE
LXXVIII. L’AMANTE.
Lo Dio d’amor per tutto ’1 regno manda messaggi e lettere a la baronia: che davanti da lui ciaschedun sia ad alcun priega e ad alcun comanda; e che vorrà far lor una domanda, la qual fornita converrà che sia, d’abbatter il castel di Gelosia, sì che non vi dimori in uscio banda. Al giorno ciaschedun si presentò, presto di far il su’ comandamento : dell’armadure ciaschedun pensò, per dar a Gelosia pene e tormento. “La baronia i’ sì vi nomerò secondo ched i’ ho rimembramento.
LXXIX.
LA BARONIA D'AMORE.
Madonna Oziosa venne la primiera con Nobiltà-di-cuor e con Ricchezza : Franchigia, Cortesia, Pietà, Larghezza, Ardimento e Onor, ciaschedun v’ era. Diletto e Compagnia seguian la schiera; Angelicanza, Sicurtà e Letezza e Sollazzo e Bieltate e Giovanezza andavan tutte impresso la bandera. Ancor v’era Umiltate e Pacienza ; Giolività vi fue e Ben-Celare e Falsembiante e Costretta-Astinenza. Amor si cominciò a maravigliare po’ vide Falsembiante in sua presenza, e disse: « Chi l’ ha tolto a sicurare ? »
IL FIORE 43
LXXX.
COSTRETTA-ASTINENZA.
Astinenza-Costretta venne avanti, e disse: « E° vien con meco in compagnia, chè sanza lui civir non mi poria, 4 tanto non pregherei nè Die nè Santi; e me e sè governa co’ sembianti che gl’ insegnò sua madre Ipocresia. I° porto il manto di Pappalardia 8 per più tosto venir a tempo a’ guanti. E così tra noi due ci governiamo, e nostra vita dimeniam gioiosa, 11 sanza dir cosa mai che noi pensiamo. | La cera nostra par molto pietosa, ma non è mal nessun che non pensiamo. 14 Ben paiam noi gente relegiosa ! »
LXXXI.
Dio D'AMOR E FALSEMBIANTE.
Lo Dio d’amor sorrise,. quando udio Astinenza-Costretta sì parlare, e disse : « Qui ha gente d’alt’affare ! 4 Dì, Falsembiante, se t’aiuti Iddio, 8° i’ ti ritegno del consiglio mio, mi potrò io in te punto fidare ? » — «Segnor mio, sì, di nulla non dottare, 8 ch’altro ch’a lealtà ma’ non pens’ io ». -- «Dunqu’ è cotesto contra tua natura ». — « Veracemente ciò è veritate, 11 ma tuttor vi mettete in avventura ! Ma’ il lupo di sua pelle non gittate, no gli farete tanto di laidura, 14 se voi imprima no lIlo scorticate ».
44 IL FIORE
LXXXII. i
DIO D’AMORE.
Amor disse a’ baroni : « I’ v’ ho mandato perchè convien ch’ i’ aggia il vostro aiuto, tanto che quel castel si’ abbattuto,
4 che Gelosia di nuovo ha già fondato. Onde ciascun di voi è mi’ giurato : sì vi richeggio che sia proveduto per voi in tal maniera che tenuto
8 non sia più contra me, ma si’ atterrato.
Chè pur convien ch’ i’ soccorra Durante, chèd i’ gli vo’ tener sua promessione,
11 chè troppo l’ ho trovato fin amante. Molto penò di tòrrelmi Ragione : | que’ come saggio fu sì fermo e stante
14 che no lle valse nulla su’ sermone ».
LXXXIII.
IL CONSIGLIO DELLA BARONIA.
La Baronia sì fece parlamento per devisar in che maniera andranno, o la qual porta prima assaliranno.
4 Sì fur ben tutti d’un accordamento, fuor che Ricchezza, che fè saramento ch’ella non prenderebbe per me affanno, ned al castel non darebbe già danno
8 per pregheria, nè per comandamento
che nessuna persona far potesse, per ciò ch’ i’ non volli anche sua contezza :
11 sì era dritto ch’ i° me ne pentesse.
Ben disse ch’ i’ le feci gran carezza sotto dal pin, ma non ch’ancor vedesse
14 che Povertà non m’avesse in distrezza.
IL FIORE 45
LXXXIV.
L’ORDINANZE DELLE BATTAGLIE DE LA BARONIA. Al Die d’amore ricordaro il fatto, e disser che trovavar d’accordanza che Falsembiante e Costretta-Astinanza 4 dessono a Malabocca scacco matto ; Larghezza e Cortesia traesser patto con quella che sa ben la vecchia danza, e Pietate e Franchezza dear miccianza R a quello Schifo che sta sì ’norsato ; e po’ vada Diletto e Ben-Celare, ed a Vergogna dean tal lastrellata 11 ched ella non si possa rilevare ; Ardimento a Paura dea ghignata, e Sicurtà la deggia sì pelare 14 ched ella non vi sia ma’ più trovata.
LXXXV.
Lo Dio D'AMORE.
Amor rispuose : « A _me sì piace assai che l’oste avete bene istabulita ; ma tu, Ricchezza, ch’or mi se’ fallita, 4 sed i’ potrò, tu te ne penterai. S’uomini ricchi i’ posso tener mai, non poss’ io già star un giorno in vita, s’avanti che da me facciar partita 8 non recherò a poco il loro assai. Uomini pover fatt’ hanno lor sire di me, e ciaschedun m’ ha dato il core; 11 per ch’a tal don mi deggio ben soffrire. Se di ricchezza sì come d’amore i i° fosse Dio, non possa io ben sentire 14 sed i’ no gli mettesse in gran riccore ».
46 IL FIORE
LXXXVI.
CA
LA RISPOSTA DE LA BARONIA.
— « S’uomini ricchi vi fanno damaggio, vo’ avete ben chi ne farà vendetta : non fate forza s’ella non s’affretta,
4 chè no’ la pagherem ben de l’oltraggio. Le donne e le pulzelle al chiar visaggio gli metteranno ancor a tal distretta, ma’ che ciascuna largo sì prometta,
8 che strutto ne sarà que’ ch’ è ’1 più saggio.
Ma, Falsembiante trametter non s’osa di questi fatti, nè sua compagnia,
11 chè gran mal gli volete; ciò ci posa. Sì vi priega tutta la Baronia che ’1 riceviate, e manderà la cosa ». 14 — «Da po’ che vo’ volete, e così sia ».
LXXXVII. L’AMORE.
Amor sì disse : « Per cotal convento, Falsosembiante, in mia corte enterrai, che tutti i nostri amici avanzerai
4 e mettera’ i nemici in bassamento. E sì ti do per buon cominciamento che re de’ barattier tu sì sarai; chè pezz’ ha che ’n capitolo il fermai, R ch’ i’ conoscea ben tu’ tradimento.
Or sì vo’ che ci dichi in audienza,
per ritrovarti se n’avrem mestiere, 11 il luogo dove tu fai residenza,
nè di che servi, nè di che mestiere :
fa che n’aggiam verace conoscenza. 14° Ma nol farai, sì se’ mal barattiere ! »
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IL FIORE 47
LXXXVIII.
FALSEMBIANTE.
— « Po’ che vi piace, ed i’ sì 1 vi diroe », » diss’allor Falsembiante: «or ascoltate,
chèd i’ sì vi dirò la veritate
del luogo dov’ io uso e dov’ i’ stoe.
Alcuna volta per lo secol voe,
ma dentro a’ chiostri fuggo in salvitate, chè quivi poss’ io dar le gran ghignate e tuttor santo tenuto saroe.
Il fatto a’ secolari è troppo aperto :
lo star guari” co llor non mi bisogna,
ch’a me convien giucar troppo coperto. Perch’ i’ la mia malizia me?’ ripogna,
vest’ io la roba del buon frate Alberto. Chi tal rob’ hae, non teme mai vergogna ».
LXKXXIX.
FALSEMBIANTE.
«I° sì mi sto con que’ religiosi,
religiosi no, se non in vista,
che fan la cera lor pensosa e trista per parer a le genti più pietosi;
e sì sì mostran molto soffrettosi
e ’n tapinando ciaschedun acquista: sì che per ciò mi piace lor amista ch’a barattar son tutti curiosi.
Po’ vanno procacciando l’accontanze
di ricche genti e vannole seguendo,
e sì voglion mangiar le gran pietanze, e preziosi vin vanno bevendo.
E queste son le lor grandi astinanze ! Po’ van la povertà altrui abbellendo ».
48 IL FIORE
XC.
FALSEMBIANTE.
« E’ sì vanno lodando la poverta, e le ricchezze pescan co’ tramagli, ed ivi mettor tutti lor travagli, 4 tutto si cuoprar e’ d’altra coverta. Di lor non puo’ tu trarre cosa certa : se tu lor presti, me’ val a chitarli ; chè se tu metti pena in racquistarli, 8 ciascun di lor si ferma in darti perta. ‘ E ciascun dice ch’ è religioso, perchè vesta di sopra grossa lana, 11 e ’1 morbido bianchetto tien nascoso. Ma già religione ivi non grana, ma grana nel cuor umile e piatoso, 14 che ’n trar sua vita mette pena e ana ».
XCI.
FALSEMBIANTE.
«Com’ i’ v’ ho detto, in cuore umile e piano santa religion grana e fiorisce; religioso non si inorgoglisce ; 4 tuttora il truova l’uon dolce e umano. A cotal gente 1’ sì do tosto mano, chè vita di nessun non m’abbellisce, se non inganna e baratta e tradisce ; 8 ma ’1 più ch’ i’ posso, di lor sì mi strano, chè con tal gente star ben non potrei; ch’a voi, gentil signor, ben dire l’oso, 11 che 8° i’ vi stesse, i’ sì m’ infignirei. E però il mi’ volere ì’ sì vi chioso, che pender prima i’ sì mi lascerei, 14 ched i’ uscisse fuor di mi’ proposo ».
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IL FIORE
XCII.
FALSEMBIANTE.
« Color con cu’ i’ sto sì hanno il mondo
sotto da lor sì forte avviluppato, ched e’ non è nessun sì gran prelato ch’a lor possanza truovi riva o fondo. Con mio baratto ciaschedun affondo ; chè sed e’ vien alcun gran litterato che voglia discovrir il mi’ peccato,
co la forza ch’ i’ ho, i’ sì 1 confondo,
Mastro Sighier non andò guari lieto :
a ghiado il fe’ morire a gran dolore
nella corte di Roma, ad Orbivieto.
Mastro Guiglielmo, il buon di Sant’ Amore, feci di Francia metter in divieto
e sbandir del reame a gran romore ».
XCIII.
FALSO-SEMBIANTE.
«I’ sì vo per lo mondo predicando
e dimostrando di far vita onesta;
ogne mi’ fatto sì vo far a sesta,
e gli altrui penso andar avviluppando. Ma chi venisse il fatto riguardando,
ed egli avesse alquanto sale in testa, veder potrebbe in che ’1 fatto si ne sta, ma nol consigliere’ andarne parlando.
Chè que’ che dice cosa che mi spiaccia
o vero a que’ che seguor mi’ pennone,
e’ convien che sia morto o messo in caccia, sanza trovar in noi mai ridenzione
nè per merzè nè per cosa che faccia :
e’ pur convien che vada a distruzione ».
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50 IL FIORE
XCIV.
Dio D'AMORE E FALSEMBIANTE.
Come Falsosembiante sì parlava, Amor sì il prese allora a ’rragionare, e dissegli, in rompendo su’ parlare,
4 ch’al su’ parer ver Dio troppo fallava. E poi il domandò se l’uon trovava religione in gente seculare.
Que’ disse : « Sì », non è mestier dottare
8 che più che ’n altro luogo ivi fruttava ;
. chèd e’ sarebbe troppo gran dolore se ciaschedun su’ anima perdesse,
11 perchè vestisse drappo di colore.
Nè lui nè altri già ciò non credesse; chè ’n ogne roba porta frutto e fiore
14 religion, ma’ che ’1 cuor le si desse.
XCV.
FALSEMBIANTE.
« Molti buon Santi ha l’uon visti morire, e molte buone Sante gloriose che fuor divote e ben religiose, 4 e robe di color volean vestire ; nè non lasciar perciò già di ’nsantire ! Ma elle non fur anche dispittose, anz’eran caritevoli e pietose 8 e sofferian per Dio d’esser martire. E s’i’ volesse, i’ n’ andre’ assa’ nomando ; ma appresso che tutte le Sante e’ Santi, 11 che l’uon va per lo mondo oggi adorando, tenner famiglie, e sì fecer anfanti; vergine e caste donne gir portando 14 cotte e sorcotti di colore e manti ».
IL FIORE 51
XCVI.
FALSEMBIANTE.
«L’undici milia vergini beate che davanti da Dio fanno lumera, in roba di color ciaschedun’era 4 il giorno ch’elle fur martoriate : non ne furo per ciò da Dio schifate. Dunque chi dice che l’anima pera per roba di color, già ciò non chera, 8 chè già non fiar per ciò di men salvate: chè ’1 salvamento vien del buon coraggio ; la roba non vi to’ nè non vi dona. 11 E questo sì de’ creder ogne saggio, che non sia intendimento di persona che que’ che veste l’abito salvaggio 14 | si salvi, se non ha l’opera bona».
XCVII.
FALSEMBIANTE.
«Chi della pelle del monton fasciasse il lupo e tra le pecore il mettesse, credete voi, perchè monton paresse, 4 che de le pecore e’ non divorasse ? Già men lor sangue non desiderasse, ma vie più tosto ingannar le potesse. Po’ che la pecora nol conoscesse, È se si fuggisse, impresso lui n’andasse. Così vo io mi’ abito divisando ched i’ per lupo non sia conosciuto, 11 tutto vad’ io le genti divorando ; e, Dio merzè, i’ son sì proveduto ched i’ vo tutto ’1 mondo oggi truffando, 14 e sì son santo e prod’uomo tenuto ».
52 IL FIORE
XCVIII.
FALSEMBIANTE.
« Sed e’ ci ha guari di cota’ lupelli, la Santa Chiesa sì è mal balita, po’ che la sua città è assalita
4 per questi apostoli, ch’or son, novelli. Ch’ i’ son certan, po’ ch’ e’ son suo’ rubelli, ch’ella non potrà esser guarentita : presa sarà sanza darvi fedita
8 nè di trabocchi nè di manganelli.
Se Dio non vi vuol metter argomento, la guerra sì fie tosto capitata,
11 sì ch’ogne cosa andrà a perdimento : ed a me par che l’ ha dimenticata, po’ sòffera cotanto tradimento
14 da color a cui guardia l’ ha lasciata ».
XCIX.
FALSEMBIANTE.
«Sed e’ vi piace, i’ sì m’andrò posando, sanza di questi fatti più parlare; ma tuttor sì vi vo’ convenenzare 4 che tutti i vostri amici andrò avanzando, ma’ che con meco ciascun vada usando : sì son e’ morti se nol voglion fare; e la mia amica convien onorare, 8 o ’1 fatto loro andrà pur peggiorando. Egli è ben ver ched i’ son traditore, e per ladron m° ha Dio pezz’ ha giuggiato, 11 perch’ i’ ho messo il mondo in tanto errore. Per molte volte mi son pergiurato ; ma i’ fo il fatto mio sanza romore, 14 sì che nessun se n’ è ancora addato ».
IL FIORE 53
C.
FALSEMBIANTE.
«I° fo sì fintamente ogne mio fatto che Proteusso, che già si solea mutare in tutto ciò ched e’ volea, 4 non seppe unquanche il quarto di baratto come fo io; chè non tenni ancor patto, e non è ancor nessun che se n’addea, tanto non stea con meco o mangi o bea 8 che nella fine no gli faccia un tratto. Ched i’ so mia fazzon sì ben cambiare ched i’ non fui unquanche conosciuto 11 in luogo, tanto vi potesse usare ; chè chi mi crede più aver veduto, cogli atti miei gli so gli occhi fasciare, 14 | sì che m’ha incontanente isconosciuto ».
CI.
FALSEMBIANTE.
. «I° sì so ben per cuor ogne linguaggio, le vite d’esto mondo i’ ho provate; ch’ un’ or divento prete, un’altra frate, 4 or prinze, or cavaliere, or fante, or paggio. Secondo ched i’ veggio mi’ vantaggio, un’ altr’ or son prelato, un’altra abate: molto mi piaccion gente regolate, 8 chè co llor cuopro meglio il mi’ volpaggio. Ancor mi fo romito e pellegrino, cherico e avvocato e giustiziere, 11 e monaco e calonaco e bighino ; e castellan mi fo e forestiere, e giovane alcun’ora e vecchio chino : 14 a brieve motti, i’ son d’ogni mestiere ».
04 IL FIORE
CII.
FALSEMBIANTE.
«Sì prendo poi per seguir mia compagna, ciò è madonna Costretta-Astinenza, altri dighisamenti a sua voglienza,
4 perch’ella mi sollazza e m’accompagna ; e metto pena perch’ella rimagna con meco, perch’ell’ è di gran soffrenza, e sa mostrar a tal gran benvoglienza
8 ch’ella vorrebbe che fosse in Ispagna.
Ella si fa pinzochera e badessa
e monaca e rinchiusa e serviziale, ll e fassi soppriora e prioressa. Iddio sa ben sed ell’ è spiritale ! Altr’ or si fa novizza, altr’ or professa; 14 ma che che faccia, non pensa ch’a male ».
CIII.
FALSEMBIANTE.
«Ancor sì non mi par nulla travaglia gir per lo mondo in ogne regione e ricercar ogne religione ; 4 ma della religion, san nulla faglia, i° lascio il grano e prendone la paglia, ch’ i non vo’ che l’abito a lor fazzone e predicar dolze predicazione : 8 con questi due argomenti il mondo abbaglia. Così vo io mutando e suono e verso e dicendo parole umili e piane, 11 ma molt’ è il fatto mio al dir diverso ; chè tutti que’ ch’oggi manucar pane non mi terrian ch’ i’ non gisse traverso, 14 ch’ i’ ne son ghiotto più che d’unto il cane ».
IL FIORE
CIV.
AMORE E FALSEMBIANTE.
Falsosembiante si volle soffrire sanza dir de’ suò’ fatti più in avante, ma ’1 Die d’amor non fece pà sembiante 4 ched e’ fosse annoiato dell’udire; anzi gli disse per lor ringioire : « E’ convien al postutto, Falsembiante, ch’ogne tua tradigion tu sì cì cante, 8 sì che non vi rimanga nulla a dire. Chè tu mi pari un uom di Gieso Cristo e ’1 portamento fai di santo ermito ». 11 — «Egli è ben ver, ma i' sono ipocristo ». — « Predicar astinenza i’ t’ ho udito ». --- « Ver’ è, ma, per ch’ i’ faccia ìl viso tristo, 14 i son di buon morse’ dentro farsito ».
CV.
FALSEMBIANTE.
« Di buon morselli i sì m’empio la pancia, e, se si truova al mondo di buon vino, e’ convien ch’ i me ne empia lo bolino : 4 ad agio vo’ star più che ’1 re di Francia! Chè gli altru’ fatti son tutti una ciancia verso de’ mie’, ch’ e’ son mastro divino, e le cose sacrete m’ indovino, 8 e tutto ’Y mondo peso a mia bilancia. Ancor vo’ da le genti tal vantaggio ch’ i’ vo’ riprender sanz’esser ripreso ; 11 ed è ben dritto, ch’ i sono ’1 più saggio ! Sì porto tuttor sotto l’arco teso, per dar a quel cotal male e damaggio 14 che ’n gastigarmi stesse punto inteso ».
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IL FIORE
CVI.
AMORE E FALSEMBIANTE.
-—— «Tu sì va’ predicando povertate e lodila ». — « Ver’ è, ad uopo altrui, ch’ i non son già su’ amico, nè ma’ fui, anzi le porto crudel nimistate ; ch’ i amerei assa’ meglio l’amistate del re di Francia che quella a colui che va caendo per l’uscia l’altrui, e muor sovente di necessitate. E ben avess’egli anima di santo, il pover, non mi piace sua contezza, e più ch’i’ posso il metto da l’un canto, e sed amor gli mostro, sì è fintezza ; ma convien ch’ i° mi cuopra di quel manto : per mostrar ch’ i’ sia buon, lor fo carezza ».
CVII.
FALSEMBIANTE.
« E quand’ io veggo ignudi que’ truanti su’ monti del litame star tremando, che freddo e fame gli va sì accorando che non posson pregiar nè Die nè Santi, el più ch’ i’ posso lor fuggo davanti, sanza girne nessun riconfortando ; anzi lor dico : ‘ Al diavol v’accomando con tutti que’ che non han de’ bisanti ’. Chè la lor compressione è fredda e secca, sì ch’ i’ non so ch’ 1’ di lor trar potesse:. or che darà colui che ’1 coltel lecca ? Di gran follia credo m’ intramettesse voler insegnar vender frutta a trecca, o ch’ i’ al letto del can unto chiedesse ».
IL FIORE
CVIII.
FALSEMBIANTE.
«Ma quand’ i' truovo un ben ricco usuraio infermo, vòl sovente a vicitare, chèéd i’ ne credo danari apportare 4 non con giomelle, anzi a colmo staio ; e quando posso, e’ non riman danaio a sua famiglia onde possa ingrassare. Quand’egli è morto, il convio a sotterrare ; 8 po’ torno e sto più ad agio che ’n gennaio. E sed i’ sono da nessun biasnmato, perch’ io il pover lascio e ’1 ricco stringo, 11 intender fo che ’1 ricco ha più peccato ; e perciò sì ’1 conforto e sì ’1 consiglio, insin che d’ogne ben s’ è spodestato, 14 e dato a me, che ‘n paradiso il pingo ».
CIX.
FALSEMBIANTE.
«Io dico che ’n sì grande dannazione va l’anima per grande povertade come per gran riccezza, in veritade ;
4 e ciaschedun de’ aver questa ’ntenzione, chè ’n un su’ libro dice Salamone : ‘Guardami, Iddio, per la tua gran pietade, di gran ricchezza e di mendichitade,
8 e dammi del tu’ ben sol per ragione.
Chè que’ ce’ ha gran ricchezza, sì oblia que’ che ’1 criò per lo su’ gran riccore,
11 di che l’anima mette in mala via.
Colui cui povertà tien in dolore, convien che sia ladrone o muor d’envia,
14 o serà falsonier o mentitore ’ ».
58 IL FIORE
CX.
FALSEMBIANTE.
« Ancor sì non comanda la scrittura che possent’ uom di corpo cheggia pane, nè che si metta a viver d’altru’ ane :
4 questo non piace a Dio nè non n’ ha cura; nè non vuol che l’uon faccia sale o mura, de le limosine, alle genti strane ; ma vuol ch’uon le diparta a gente umane
8 di cui forza e santade ha gran paura.
E sì difendea 1 buono Giustiziano, e questo fece scriver nella legge, 11 che nessun dia limosina a uom sano ‘che truovi a guadagnare, e tu t’avvegge ch’a lavorare e’ non vuol metter mano ; 14 ma vuol che tu ’l gastighi e cacci e fegge ».
CXI.
FALSEMBIANTE.
« Chi di cota’ limosine è ’ngrassato in paradiso non de’ attender pregio, anzi vi de’ attender gran dispregio, 4 almeno se non è privilegiato ; e s’alcun n’ è, sì n’è fatto, ingannato el Papa che li diè il su’ collegio, chè dar non credo dovria privilegio 8 ch’uom sano e forte gisse mendicato. Chè le limosine che son donate a’ vecchi o magagnati san possanza, 11 a cui la morte seria gran santate, . colui che le manuca in lor gravanza elle gli fieno ancora ben comprate : 14 di questo non bisogna aver dottanza ! »
IL FIORE 59
CXII.
FALSEMBIANTE.
«Tanto quanto Gesù andò per terra, i suo’ discepoli e’ non dimandaro nè pan nè vino, anzi il guadagnaro 4 co le lor man, se lo scritto non erra. Co’ buon mastri divin ne feci guerra; perchè questo sermone predicaro al popolo a Parigi, e sì ’1 provaro, 8 ch’uom ch’ è truante col diavol s’afferra. Ancor po’ che Gesù si tornò in cielo, san Paolo predicava i compagnoni 11 ched e’ sì non vendesser lo Guagnelo ; sì che di grazia fecer lor sermoni, di lor lavor vivien, già nol vi celo, = 14 sanza fondar castella nè magioni ».
CXIII.
FALSEMBIANTE.
« Ver è che ci ha persone ispeziali che van cherendo lor vita per Dio, per ch’ i’ vi dico ben ch’al parer mio 4 egli è mercè far bene a que’ cotali. Di questi sono alquanti bestiali, - che non hanno iscienza in lavorio, ed altri v’ ha che l hanno, ma è rio 8 il tempo e’ lor guadagni sì son frali. Ha ’ncor di gentil gente discacciata, che non son costumati a lavorare, 11 “ma son vivuti sol di lor entrata. A cota’ genti de’ ciascun donare, chè lor limosina è bene impiegata ; 14 sì è mercè atarli governare ».
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IL FIORE
CXIV.
FALSEMBIANTE.
«Ad alcun altro che fa lavoraggio, ma ben sua vita trar non ne poria, sì gli consente Iddio ben truandia per quel che gli fallisce al su’ managgio. Od altro pover ch’avesse coraggio di volere studiar in chericia, gran merced’ è a farli cortesia insin che sia de la scienza saggio.
E sen cavalleria alcun volesse intender, per la fede e sè alzare, non falleria già sed e’ chiedesse, infin che sè potesse ben montare,
e avere spezieria che potesse conducersi in la terra d’oltre mare ».
CXV.
DIO D'AMORE E FALSEMBIANTE.
— « Dì, Falsembiante : in che maniera puote seguire Iddio chi ha tutto venduto, ed hallo tutto a’ pover dispenduto,
e le sue borse son rimase vote,
ed è forte e possente e ha grosse gote ? Gli sarebbe per dritto conceduto
ch’a trar sua vita domandasse aiuto, come quest’altri che tu or mi note ? »
—- « Dico di no; chè se Dio fè comanda ch’on desse tutto a’ poveri e po’ ’1 sieva, la sua ’ntenzion non fu in truandando (e questo intendimento ti ne lieva), ma con buon’opre tuttor lavorando ; ch’uom forte, in truandar l’anima grieva ».
IL FIORE
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CXVI.
FALSEMBIANTE.
« Ancor una crudel costuma abbiamo : contra cui no’ prendiam la nimistate quanti noi siamo, in buona veritate, in difamarlo noi ci assottigliamo ;
e se per avventura noi sappiamo com’ e’ possa venire a dignitate, nascosamente noi facciam tagliate,
sì che di quella via no’ il ne gittiamo.
E ciò facciamo noi sì tracelato ch’ e’ non saprà per cui l’avrà perduto, infin che non ne fia di fuor gittato. Chè se l’avesse da prima saputo, per avventura e’ si saria scusato, sì ch’ i’ ne saria menzonier tenuto.
CXVII.
AMORE E FALSEMBIANTE.
— «Cotesta mi par gran dislealtate », rispose Amore. « Or non credi tu ’n Cristo ? » — «I° non, chèd e’ sarà pover e tristo colu’ che viverà di lealtate.
Sì ch’ io non vo’ per me quelle ghignate ; ma come ched i’ possa, i’ pur acquisto, chè da nessun non è volontier visto colui che man terrà di povertate.
Anzi l’allunga ciascuno ed incaccia : già no lli fia sì amico nè parente ched egli il vegga volontieri in faccia.
Sì ch’ i’ vogli’ anzi ch’ on mi sia ubbidente, come ch’ io a Cristo ne dispiaccia, ched esser in servaggio della gente ».
62 IL FIORE
CXVIII.
FALSEMBIANTE.
« Vedete che danari hanno usorieri, siniscalchi e provosti e piatitori ! che tutti quanti son gran rubatori,
4 e sì son argogliosi molto e fieri. Ancor borghesi sopra i cavalieri son oggi tutti quanti, venditori di lor derrate e atterminatori ;
8 sì ch’ogne gentil uom farà panieri,
e conviene che vendan casa o terra infin che i borghesi siar pagati,
11 chè giorno e notte gli tegnono in serra. Ma io, che porto panni devisati, fo creder lor che ciascheun sì erra,
14 e ’nganno ingannatori e ingannati ».
CXIX.
FALSEMBIANTE.
« Chi sen vuol adirar, sì se n’adiri, chèd i’ vi pur contrò ogne mio fatto, 8’ i’ dovess’esser istrutto intrafatto, 4 o morto a torto com furo i martiri, o discacciato come fu ’1 buon siri Guiglielmo che di Santo Amor fu stratto. Così il conciò la moglie di Baratto, 8 però che mi rompea tutti mie’ giri. Chèd e’ sì fu per lei sì discacciato, e sol per verità che sostenea, nes ched e’ fu del reame isbandeggiato. De mia vita fè libro, e sì leggea che non volea ch’ i’ gisse mendicato : l4 - verso mia madre troppo misprendea ! »
IL FIORE
CXX.
FALSEMBIANTE.
«Questo buon uom volea ch’ i’ rinnegasse mendichità e gisse lavorando, 8’ i non avea che mia vita ir passando 4 potesse, sanza ch’altro domandasse. A quel consiglio mai non m’accordasse : tropp’ è gran noia l’andar travagliando ! Megli’ amo stare davante adorando 8 ‘. ched i’ a lavorar m'’affaticasse. Chè ’1 lavorar sì non mi può piacere, nèéd a ciò consentir nori mi poria, 11 chè molte volte fallarei in dolere. Più amo il manto di Pappalardia portar, perciò che gl’ è maggior savere, 14 chè di lui cuopr’ io mia gran rinaldia »
CXKXI.
FALSEMBIANTE.
«I’ sì non ho più cura d’ermitaggi, nè di star in diserti nè ’n foresta, chè vi cade sovente la tempesta:
4 sì chito a San Giovanni que’ boscaggi! In cittadi e ’n castella fo mie’ staggi mostrando ched i’ faccia vita agresta ; ma s’alla villa buon morsel s’arresta,
8 e’ pur convien per forza ch’ i’ n’assaggi.
E vo dicendo ch’ i’ vo fuor del mondo, per ch’ i’ mi giuochi in sale e in palagi;
11 ma chi vuol dire vero, i’ mi v’affondo. S° i’ posso trovar via d’aver grand’agi, or siate certo ch’ i' non mi nascondo
14 io DI e ae da
63
64 IL FIORE
CXXII.
FALSEMBIANTE.
« Ancor sì m’ intrametto in far mogliazzo, — altr’ or fo paci, altr’ or sì son sensale; ‘manovaldo mi fo, ma quel cotale 4 che mi vi mette l’abbiate per pazzo, chè de’ suo’ beni i’ fo torre e palazzo, o ver be’ dormitori o belle sale, sì che, s’egli ha figliuol, poco gli vale 8 i ben del padre, sì ’1 te ne rispazzo. E se vo’ aveste nulla cosa a fare intorno di colui con ch’ i’ riparo, 11 diràllami, faròlla capitare ; ma non convien mostrar che vi si’ amaro a largamente sapermi donare, 14 chè ’1 mi’ servigio il vendo molto caro ».
CXXIII.
FALSEMBIANTE.
« I’ sì son de’ valletti d’Antecristo, di que’ ladron che dice la Scrittura che fanno molto santa portatura, 4 e ciaschedun di loro è ipocristo. Agnol pietoso par quand’uon l’ ha visto, di fora sì fa dolze portatura ; ma egli è dentro lupo per natura, 8 che divora la gente Gieso Cristo. Così abbiamo impreso mare e terra, e sì facciam per tutto ordinamento : 11 chi non l’osserva, diciam ch’a fede erra. Tanto facciam con nostro tradimento, che tutto ’1 mondo ha preso con noi guerra; 14 ma tutti gli mettiamo a perdimento ».
IL FIORE
CXXIV.
FALSEMBIANTE.
«Sed i’ truovo in cittade o in castello, colà ove Paterin sia riparato, credente ched e’ sia o consolato,
4 od altr'uom (ma’ che sia mio ribello), o prete ched e’ sia o chericello che tenga amica, o giolivo parlato, e’ convien che per me sia gastigato, 8 chè ciaschedun mi dotta, sì son fello.
Ancor gastigo altressì usurai,
e que’ che sopravendono a credenza, 11 roffiane e forziere e bordellai.
E ’n ciascuno i’ ho malivoglienza ;
ma che che duol tu senti, nol dirai, 14 sì fortemente dotti mia sentenza ».
CXKXV.
FALSEMBIANTE.
« Que’ che vorrà campar del mi’ furore, ecco qui preste le mie difensioni : grosse lamprede, o ver di gran salmoni
4 apporti, lucci, sanza far sentore. La buona anguilla non è già peggiore ;
. a&lose o tinche o buoni storioni, torte battute o tartere o fiadoni:
8 queste son cose da ’cquistar mi’ amore.
O se mi manda ancor grossi cavretti,
o gran cappon di muda ben nodriti, 11 o paperi novelli o coniglietti. Da ch’e’ci avrà di ta’ morse’ serviti, no gli bisogna di far gran disdetti: 14 dic'a che giuoco, e giuoco a tutti ’nviti ».
66 IL FIORE
CXXVI. FALSEMBIANTE.
«Que’ che non pensa d’aver l’armadure ch’ i v’ ho contate, o ver preziosi vini o ver di be’ sacchetti di fiorini, 4 le mie sentenze lor fier troppo dure. Nè non si fidi già in escritture, chè saccian che co’ mie’ mastri divini i’ proverò ched e’ son Paterini, 8 e farò lor sentir le gran calure. Od i’ farò almen che fien murati, o darò lor sì dure penitenze 11 che me’ lor fora che non fosser nati. A Prato ed a Arezzo e a Firenze n’ ho io distrutti molti e iscacciati. 14 Dolente è que’ che cade a mie sentenze ! »
CXXVII.
Lo Dio D'AMOR E FALSEMBIANTE.
— « Dì, Falsembiante, per gran cortesia, po’ ch’ i’ t' ho ritenuto di mia gente, e hòtti fatto don sì bel e gente 4 che tu se’ re della baratteria, affideròommi in te, o è follia ? Fa che tu me ne facci conoscente; chèd i’ sarei doman troppo dolente, 8 se tu pensassi a farmi villania ». — « Per Dio merzè, Messer, non vi dottate, chèd i’ vi do la fè, tal com’i’ porto, 1 chèd i’ vi terrò pura lealtate ». — « Allor » sì disse Amor «ognon si’ accorto d’armarsi con su’ arme devisate, 14 e vadasi al castel che sì m’ ha morto ».
IL FIORE 67
CXXVIII.
L’ARMATA DE’ BARONI.
Ha l’armadure ciaschedun sì prese, e sì s'armar con molto gran valore per dar a Gelosia pene e dolore, 4 se contra loro stesse alle difese. Ed alcun prese scudo, altro pavese, ispade e lance, a molto gran romore, dicendo ciaschedun al Die d’amore 8 che quelle guardie saran morte e prese. Or sì vi conterò la contenenza che Falsembiante fece in quella andata 11 colla su’ amica Costretta-Astinenza. E° non menar co llor già gente armata, ma come gente di gran penitenza 14 sì mosser per fornir ben lor giornata.
CXXIX.
Com’ ASTINENZA ANDÒ A MALABOCCA. —
Astinenza-Costretta la primera sì si vestì di roba di renduta, velata, che non fosse conosciuta :
4 con un saltero in man facea preghera. La cera sua non parea molto fera, anz’era umile e piana divenuta : al saltero una filza avea penduta
8 di paternostri, e ’1 laccio di fil iera.
Ed in mano un bordon di ladorneccio portava, il qual le donò ser Baratto
11 già non era di melo nè di leccio ; ‘ il suocer le l’avea tagliato e fatto. La scarsella avea piena di forneccio.
14 Ver Malabocca andò per darli matto.
68 IL FIORE
CXXX.
COME FALSEMBIANTE ANDÒ A MALABOCCA.
Falsosembiante, sì com’om di coro religioso e di santa vita, s’apparecchiò, e sì avea vestita 4 | la roba frate Alberto d’Agimoro. Il su’ bordon non fu di secomoro, ma di gran falsità ben ripulita ; la sua scarsella avea pien’e fornita 8 di tradigion, più che d’argento o d’oro; ed una bibbia al collo tutta sola portava : in seno avea rasoio tagliente, 11 che ’1 fece fabbricare a Tagliagola, di che quel Malabocca maldicente fu poi strangolato, che tal gola 14 avea de dir male d’ogne gente.
CXXXI.
MaLABOCCA, FALSEMBIANTE E COSTRETTA-ASTINENZA.
Così n’andaro in lor pellegrinaggio la buona pellegrina e ’1 pellegrino ; ver Malabocca tenner lor cammino, 4 che troppo ben guardava su’ passaggio. E Falsembiante malizioso e saggio il salutò col capo molto chino, e sì gli dissi: «I° son mastro divino, 8 sì sian venuti a voi per ostellaggio ». Malabocca conobbe ben Sembiante,, ma non ch'e’ fosse Falso ; sì rispuose 11 ch’ostel darebbe lor: « Venite avante ». Ad Astinenza molto mente puose, chè veduta l’avea per volte mante ; 14 ma per Costretta già mai no lla spuose.
IL FIORE 69
CXXXII. MaraBOccAa, FALSEMBIANTE E COSTRETTA-ASTINENZA.
Malabocca sì ’nchiede i pellegrini di loro stato e di lor condizione, e dimandò qual’era la cagione 4 ch’egli andavan sì matti e sì tapini. Que?’ disser : « No’ sì siam mastri divini, e sì cerchiamo in ogne regione de l’anime che vanno a perdizione, 8 per rimenargli a lor dritti cammini. Or par che sia piaciuto al Salvatore d’averci qui condotti per vo’ dire 11 e gastigar del vostro grande errore, se vi piace d’intender e d’udire ». — «€. n n n . . . . . ° . . 14. o fatto, i’ sì son presto d’ubbidire ».
CXXXIII.
ASTINENZA.
Astinenza sì cominciò a parlare, e disse : « La vertude più sovrana che possa aver la criatura umana, 4 sì è della sua lingua rifrenare. Sovr’ ogn’ altra persona a noi sì pare ch’esto peccato in voi fiorisce e grana : se nol lasciate, egli è cosa certana 8 che nello ’nferno vi conviene andare. Chè pezz’ ha ch’una truffola levaste sopra ’l valletto che vo’ ben sapete : 11 con grande torto voi il difamaste, chè non pensava a ciò che vo? credete. Bellaccoglienza tanto ne gravaste, 14 ch’ella fu messa là ove vo’ vedete ».
70 | IL FIORE
CXXXIV.
MALABOCCA.
Udendo Malabocca ch’Astinenza sì forte il biasimava e riprendea, sì si erucciò, e disse che volea
4 ch’andasser fuor della sua pertenenza : « Vo’ credete coprir Bellaccoglienza di ciò che quel valletto far credea. Ben lo dissi e dirò, ch’ella volea
8 donargli il fior; e quest’era sua ’ntenza.
Quel non errò del bascio, quest’ è certo : per ch’ i’ vi dico, a voi divinatori,
11 che questo fatto non fia già coverto. Vo’ mi parete due ingannatori : andate fuor di casa, che ’n aperto
14 vi dico ch’ i’ non vo’ tapinatori ».
CXXXV.
FALSEMBIANTE.
Falsosembiante disse : « Per merzede vi priego, Malabocca, ch’ascoltiate; chè quand’uon conta pura veritate, 4 molt’ è folle colu’ che no lla crede. Vo’ sete ben certan che l’uon non vede che ’1 valletto vi porti nimistate. Sed egli amasse tanto l’amistate 8 del fior quanto vo’ dite, a buona fede!, egli ha gran pezza che v’avria morto, avendogli voi fatto tal oltraggio. 11 Ma non vi pensa e non si n’ è accorto, e tuttor sì vi mostra buon coraggio, e servirebbevi a dritto e a torto,
LI
14 come que’ ch’ è cortese e prode e saggio ».
IL FIORE
CXXXVI.
LA RIPENTENZA MALABOCCA.
Ser Malabocca si fu ripentuto di ciò ch’egli avea detto o pur pensato, ched e’ credette ben aver fallato ; i 4 sì disse a Falsembiante : « Il vostro aiuto convien ch’ i’ aggia ch’ i’ non sia perduto »; e ’mmantenente si fu inginocchiato, e disse : « I’ sì vogli’ esser confessato 8 d’ogne peccato che m’è avvenuto ». Astinenza-Costretta il prese allora, che s’era molto ben sobbarcolata, 11 e Falsembiante col rasoio lavora: a Malabocca la gola ha tagliata. E po’ rupper la porta san dimora : 14 Larghezza e Cortesia l’ hanno passata.
CXXXVII.
CorTESIA E LARGHEZZA E LA VECCHIA.
Tutti quattro passarono il portale, e si trovaron dentro a la porpresa. La Vecchia, che del cassero era sciesa, 4 quando gli vide, le ne parve male; ma tuttavia non ne fece segnale. Larghezza e Cortesia sì l’ hanno attesa, e disserle : « Madonna, san difesa 8° potete prender quanto il nostro vale : chèd egli è vostro, sanza farne parte, e sì ve ne doniam già la sagina 11 e sopra tutto vi vogliam far carte ». La Vecchia che sapea ben la dottrina, chè molte volte avea studiato l’arte, 14 gline merzìa molto e gline ’nchina.
72 IL FIORE
CXXXVIII.
FALSEMBIANTE.
Falsembiante a la Vecchia sì ha detto: « Per Dio, gentil madonna preziosa che sempre foste e siete pietosa,
4 che vo’ aggiate merzè del buon valletto ! Ch’ e’ vi piaccia portarle un gioelletto da la sua parte a quella graziosa Bellaccoglienza, che gli fu nascosa,
8 de ch’egli ha avuto il cuor molto distretto !:
Vedete qui fermagli ch’ e’ le manda, e queste anella e questi intrecciatoi,
11 ancora questa nobile ghirlanda.
Il fatto suo si tien tratutto a voi. Ciascun di noi per sè lui raccomanda : 14 del fatto vostro penserem ben noi ».
CXXXIX.
LA VECCHIA E FALSEMBIANTE.
La Vecchia sì rispuose san tardare, chè ’1 male e ’1 ben sapea quantunque n'era : « Voi mi fate sì dolze preghera 4 ch’ i no lo vi saprei già mai vietare. ‘ Questi gioelli i’ sì vo’ ben portare e dargli nella più bella maniera che io potrò; ma una lingua fiera, 8 che qua entr’ è, mi fa molto dottare, e ciò è Malabocca maldicente, che truova ogne dì nuovi misfatti, 11 nè non riguarda amico nè parente ». — «Nol ridottate più già mai a fatti, chè noi sì l’abbiam morto quel dolente, 14 sanza che ’n noi trovasse trieva o patti ».
IL FIORE
CXL.
‘+ LA VECCHIA E FALSEMBIANTE.
« Certanamente noi gli abbiam segata la gola, e giace morto ; nel fossato e’ non ha guar che noi l’abbiam gittato, 4 e ’1 diavol si n’ ha l’anima portata ». La Vecchia sì rispuose : « Or è ammendata nostra bisogna, po’ ch’egli è sì andato. Colui, cu’ vo’ m’avete accomandato, 8 i metterò in servirlo mia pensata. Dit’al valletto ch’ i’ ne parleroe : quando vedrò che ’1 fatto sia ben giunto, 11 i tutta sola a chieder sì l’androe ». Allor si parte ed ivi fece punto, e tutti quanti a Dio gli accomandoe. 14 Molto mi parve che ’1 fatto sie ’°n punto.
CXLI.
LA VECCHIA E BELLACCOGLIENZA.
Dritta a la camera a la donna mia n’andò la Vecchia, quanto può trottando, e quella là trovò molto pensando, 4 come se fosse d’una voglia ria. Crucciosa so ch'era, che non ridia: sì tosto allor la va riconfortando, e disse : « Figlia mia, io ti comando 8 che tu non entri già in malinconia ; e ve’ ciò che tu’ amico ti presenta ». Allor le mostra quelle gioiellette, 11 pregandola ch’ a prenderl’ acconsenta : « Reguarda com’elle son belle e nette ». Quella di domandar non fu già lenta 14 chi era colui che gliele tramette.
73
74 IL FIORE
CXLII.
LA VECCHIA.
« Il bel valletto di cu’ biasmo avesti giadisse, sì è colui che le ti manda, e ’1 rimanente c’ ha è a tua comanda. 4 Unquanche uom più cortese non vedesti. E priegati, se mai ben gli volesti, che per l’amor di lui questa ghirlanda deggie portare, e sì se raccomanda 8 del tutto a te. Gran peccato faresti se ’l1 su’ presente tu gli rifusassi ! Ch’ i’ son certana ch’ e’ si disperrebbe, ll se tu così del tutto lo sfidassi; chè quanto che potesse e’ sì farebbe per te, e sofferria che lo ’ngaggiassi 14 e, se ’l vendessi, sì gli piacerebbe ».
CXLIII.
BELLACCOGLIENZA E LA VECCHIA.
— « Madonna, i’ dotto tanto Gelosia, ch’esto presente prender non osasse; che se domane ella mi domandasse:
4 ‘chi ’1 ti donò ?’, io come le diria ?». . — «Risposta buona i’ non ti celeria: chè, 8° ogn’ altra risposta ti fallasse, sì dì almen ched i’ la ti donasse, 8 ed i’ le dirò ben che così sia ».
Allor la Vecchia la ghirlanda prese,
e’n su le treccie bionde a la pulcella 11 la puose, e quella guar non si contese;
e po’ prese lo specchio, e sì l’appella
e disse: « Vien qua, figliuola cortese. 14 Riguardati, se tu se’ punto bella! »
IL FIORE 75
CXLIV.
BELLACCOGLIENZA E LA VECCHIA.
Allor Bellaccoglienza più non tarda. Immantenente lo specchi’ ebbe in mano, sì vide il viso suo umile e piano:
4 per molte volte nello specchio guarda. La Vecchia che l’avea presa en sua guarda, le giura e dice: « Per lo Dio sovrano, ch’unquanche Isotta, l’amica Tristano, 8 i E ale e È e Come tu se’, figliuola mia, gentile ! Or convien che tu abbie il mi’ consiglio, 11 che cader non potessi in luogo vile. Se non sai guari, non mi maraviglio, chè giovan uom non puot’esser sottile, 14 chèd’ i’, quanto più vivo, più assottiglio ».
»
. CKLV. i
LA VECCHIA.
« Figliuola mia cortese ed insegnata, la tua gran gioia si è ancor a venire. Or me convien me pianger e languire, 4 chè la mia sì se n’ è tutta passata, nè non fie mai per me più ritrovata, chèd ella mi giurò di non reddire. Or vo’ consigliar te, che de’ sentire 8 il caldo del brandon, che sie avvisata, che non facessi sì come fec’ io : de ch’ i’ son trista quand’ e’ men rimembra, 11 ch’ i° non posso tornare al lavorio. Per ch’ i’ te dico ben ched e’ mi sembra: se tu creder vorra’ ’1 consiglio mio, 14 tu sì non perderai aver nè membra ».
76 | | IL FIORE
CXLVI.
LA VECCHIA.
«Se del giuoco d’amor i’ fosse essuta ben saggia, quand’ i’ era giovanella, l’ sare’ ricca più che damigella 4 o donna, che tu aggie oggi veduta. Ch’ i° fu’ sì trapiacente in mia venuta, che per tutto correa la novella com’ f° era cortese e gente e bella ; 8 ma ciò mi pesa ch’ i’ non fu’ saputa. Or sì mi doglio, quand’ i’ mi rimiro dentro a lo specchio, ed i’ veggo invecchiarmi : 11 molto nel mio cuor e’ me n’ adiro. Ver è ched i’ di ciò non posso atarmi, sì che per molte volte ne sospiro, 14 quand’ i’ veggio biltate abbandonarmi ».
CXLVII.
LA VECCHIA.
« Per tutto ’1 mondo i’ era ricordata, com’ io t’ ho detto, de la mia bieltate, e molte zuffe ne fur cominciate, 4 e molta gente alcun’ora piagata ; chè que’ che mi crede’ aver più legata, assa’ i mostrav’ i’ più di duritate : le mie promesse gli venian fallate, 8 ch’ altre persone m’avieno inarrata. Per molte volte m’era l’uscio rotto e tentennato, quand’ io mi dormia ; 11 ma già per ciò io non facea lor motto, perciò ched i’ avea altra compagnia, a cui intender facea che ’1 su’ disdotto 14 mì piacea più che null’altro che sia ».
IL FIORE 17
CXLVIII.
LA VECCHIA.
« I’ era bella e giovane e folletta, ma non era a la scuola de l’amore istata; ma i’ so or ben per cuore 4 la pratica la qual ti fie qui detta. Usanza me n’ ha fatta sì savietta, ched i’ non dottereìi nessun lettore che di ciò mi facesse desinore, 8 ma’ ched i’ fosse bella e giovanetta. Chéd egli è tanto ched i’ non finai, che la scienza i’ ho nel mi’ coraggio. 11 Sed e’ ti piace, tu l’ascolterai, ma i’ no l’ebbi sanza gran damaggio : molta pen’ e travaglio vi durai ! 14 Ma pure almen senn’ ho mess’ en l’usaggio ».
CXLIX.
LA VECCHIA.
« Molti buon’uomini i’ ho già ’ngannati, quand’ i’ gli tenni ne’ mie’ lacci presi : ma prima fu’ ’ngannata tanti mesi
4 che’ più de’ mie’ sollazzi eran passati. Cento milia cotanti e’ barattati n’avrei, s° i a buonor gli avesse tesi, e conti e cavalieri e gran borgesi,
8 che molti fiorin d’oro m’avrian dati.
Ma quand’ i’ me n’avvidi, egli era tardi,
chèd i’ era già fuor di giovanezza,
11 ed eranmi falliti i dolzi isguardi, chè ’n sua balia mi tenea vecchiezza. Or convien, figlia mia, che tu ti guardì
14 che tu non ti conduchi a tale strezza ».
78 IL FIORE
CL.
LA VECCHIA.
« Molto mi dolea il cuor quand’ i’ vedea che l’uscio mio stava in tal soggiorno ! Che vi solea aver tal pressa ’ntorno 4 che tutta la contrada ne dolea ; ma quanto a me, e’ non me ne calea, chè troppo più piacea loro quel torno ; ch’ i’ era allora di sì grande attorno 8 che tutto quanto il mondo mi’ parea. Or convenia che di dolor morisse, quand’ i’ vedea que’ giovani passare, 11 e ciaschedun parea che mi schernisse. Vecchia increspata mi facean chiamare a colu’ solamente che giadisse 14 più carnalmente mi solea amare ».
CLI.
LA VECCHIA. « Ancora d’altra parte cuore umano non penserebbe il gran dolor ch’ i’ sento tratutte l’ore ch’ i ho pensamento 4 de’ be’ basciar, che m’ hanno dato mano. Ogni sollazzo m’è oggi lontano, ma non ira e dolori e gran tormento: costor sì hanno fatto saramento 8 ch’ i non uscirò lor ‘mai di tra mano. Or puo’ veder com’ i’ son arrivata, nè al mi’ mal non ha altra cagione, 11 se non ched i’ fu’ troppo tosto nata. Ma sappie ched io ho ferma intenzione ch’ i’ sarò ancora per te vendicata, 14 se tu ben riterrai la mia lezione ».
- —_-—..
IL FIORE
CLII.
LA VECCHIA.
« Non ne poss’altrementi far vengianza se non per insegnarti mia dottrina; perciò che lo me’ cor sì m’ indovina
4 che tu darai lor ancor gran miccianza a que’ ribaldi, che tanta viltanza me diceano da sera e da mattina. Tutti gli metterai anche a la china,
8 se tu sa’ ben tener la tua bilanza.
Chè sie. certana, s’ i’ fosse dell’aggio, figliuola mia, che tu se’ or presente,
11 ch’ i’ gli paghere’ ben di lor oltraggio, sì che ciascuno fare’ star dolente : già tanto non sarebbe pro’ nè saggio 14 ched i’ non ne facesse pan chiedente ».
CLIII.
LA VECCHIA.
«In gran povertà tutti gli mettesse, sì com’ e’ t’ ho di sopra sermonato, e sì sarebbe il primo dispogliato 4 colui che più cara mi tenesse. Di nessun mai pietà non mi n’ prendesse, chè ciaschedun vorre’ aver disertato ; chè sie certana che non è peccato 8 punir la lor malattia, chi potesse. Ma e’ non dottan guari mia minaccia nè non fan forza di cosa ch’ i’ dica, 11 per ciò c’ ho troppo crespa la mia faccia. Figliuola mia, se Dio ti benedica, i non so chi vendetta me ne faccia 14 se non tu, ch’ i’ per me son troppo antica ».
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80 IL FIORE
CLIV.
LA VECCHIA.
« Molte volte mi disse quel ribaldo per cu’ i ebbi tanta pena e male, ched e’ verrebbe ancor tal temporale 4 ched i’ avrei spesso freddo e caldo. Ben disse ver, quel conto ho i’ ben saldo ; ma pur l’agio ch’ i’ ebb’è tanto e tale, che tutto quanto il cuor mi ne trasale, 8 quand’ i rimembro, sì ritorna baldo. Giovane donna non è ma’ oziosa, sed ella ben al fatto sì ripensa 11 per ch’ella sti’ a menar vita gioiosa. Ma ch’ella pensi a chieder sua dispensa, sì ch’ella non si truovi soffrattosa, 14 quando vecchiezza vien poi che l’adesa ».
Li
CLV.
LA VECCHIA.
« Or ti dirò, figliuola mia cortese, po’ che parlar possiamo per ligire e più arditamente, ver vo’ dire, 4 che noi non solavam (quest’ è palese !). Tu sì sa’ ben ch’ i’ son di stran paese, e sì son messa qui per te nodrire : sì ti priego, figliuola, che t’attire 8 in saper guadagnar bene tue spese. Non ch’ i’ te dica ch’ i’ voglia pensare che tu d’amor per me sie ’nviluppata ; 11 ma tuttor sì te voglio ricontare la via ond’ io dovre’ esser andata, e ’n che maniera mi dovea menare 14 anzi che mia bieltà fosse passata ».
IL FIORE
CLVI.
LA VECCHIA.
« Figliuola mia, chi vuol gioir d’ Amore convien che sappia i suo’ comandamenti. Ver è ched e’ ve n° ha due dispiacenti :
4 chi se ne ’mbriga, sì fa gran follore. L’un dice che ’n un sol luogo il tu’ cuore tu metta, sanza farne partimenti ; l’altro vuol che sie largo in far presenti:
8 chi di ciò ’1 crede, falleria ancore.
In nulla guisa, figlia, vo’ sia larga, nè che ’l tu’ cuor tu metti in un sol loco;
11 ma, se mi credi, in più luoghi lo larga. Se dai presenti, fa che vaglian poco ; che s° e’ ti dona Lucca, dagli Barga.
14 Così sarai tuttor donna del giuoco ».
CLVII.
LA VECCHIA.
«Donar di femina sì è gran follia, sed e’ non s’ è un poco a genti attrare là dov’ella si creda su’ pro fare, e che ’1 su’ don raddoppiato le sia. Quella non tengh’ i’ già per villania ; .ben ti consento quel cotal donare, chè tu non vi puo’ se non guadagnare : 8 gran senn’ è a far tal mercatantia. Agli uomini lasciam far la larghezza, chè natura la ci ha, pezz’ è, vietata. 11 Dunque a femina farla si è sempiezza ; avvegna che ciascun’ è sì affetata che volontier di lei fanno stranezza, 14 sed e’ non s’ è alcuna disperata ! »
FS
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82 IL FIORE
CLVIII.
LA VECCHIA.
«I’ lodo ben, se tu vuo’ far amico, che ’1 bel valletto, che tant’ è piacente, che de le gioie ti fece presente 4 e hatti amata di gran tempo antico, che tu sì l’ami: ma tuttor ti dico che tu no ll’ami troppo fermamente ; ma fa che degli altr’ami saggiamente, 8 chè ’1 cuor che n’ ama un sol, non val un fico. Ed io te ne chiedrò degli altri assai, sì che d’aver sarai tuttor fornita, 11 ed e’ n’andranno con pene e con guai. Se tu mi credi, e Cristo ti dà vita, tu ti fodrai d’ermine e di vai, 14 e la tua borsa fia tuttor guarnita ».
CLIX.
LA VECCHIA.
«Buon accontar fa uom ch’abbia danari, ma’ ched e’ sia chi ben pelar li saccia : con quel cotal fa buon intrar in caccia,
4 ma’ ched e’ no gli tenga troppo cari. L’accontanza a color che son avari sì par ch’a Dio e al mondo dispiaccia : , non dar mangiar a que’ cotali in taccia, 8 che’ pagamenti lor son troppo amari.
Ma fa pur che ti paghi innanzi mano ;
chè, quand’ e’ sarà ben volonteroso, 11 per la fè ched i’ do a San Germano,
e’ non potrà tener nulla nascoso,
già tanto non fia saggio nè certano, 14 sed e’ sarà di quel volonteroso ».
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IL FIORE
CLX.
LA VECCHIA..
« E quando sol a sol con lui sarai, sì fa che tu gli facci saramenti che tu per suo danar non ti consenti, ma sol per grande amor che tu in lui hai. Se fosser mille, a ciascun lo dirai, e sì ’l te crederanno que’ dolenti; e saccie far sì che ciascuno addenti insin ch’a povertà gli metterai.
Che tu se’ tutta loro de’ giurare. Se ti spergiuri, non vi metter piato, chè Dio non se ne fa se non ghignare ; chè sie certana che non è peccato chi si spergiura, per voler pelare colui che fie di te così ingannato ».
CLXI.
LA VECCHIA.
« A gran pena può femina venire a buon capo di questa gente rea. Dido non potte ritenere Enea, ched e’ non si volesse pur fuggire, che mise tanta pena in lui servire. Or che fece Gesona de Medea ? Che, per gl’ incantamenti che sapea, ella °1 soppe di morte guarentire,
e poi sì la lasciò, quel disleale ! Ond’ è ched i figliuo’, ched ella avea di lui, gli mise a. morte, e fece male; ma era tanto il ben ch’ella volea, ch’ella lasciò tutta pietà carnale per crucciar que’ che tanto le piacea ».
84 IL FIORE
CLXII.
LA VECCHIA.
« Molti d’assempri dar te ne potrei, ma troppo saria lungo parlamento. Ciascuna de’ aver fermo intendimento 4 di scorticargli, sì son falsi e rei. S’ i’ fosse giovane, io ben lo farei; ma io son fuor di quello intendimento chè troppo fu tosto il mi’ nascimento, 8 sì ch’ i’ vendetta far non ne potrei. Ma tu, figliuola mia, che se’ fornita d’ ogn’ armadura per farne vengianza, 11 sì fa’ che ’nverso lor sie ben sentita, e presta di dar lor pen’ e miccianza. Se tu 1 fai, d’ogni mal m’avra’ guerita 14 e alleggiata d’ogne mia pesanza ».
CLXIII.
LA VECCHIA.
«Tutti quanti le vann’oggi blasmando, e ciaschedun sì le ’ntende a ’ngannare: così ciascuna di noi de’ pensare 4 a far che la ricchezza i mett’a bando. E non dobbiamo andar il cuor ficcando in un sol luogo, ma dobbiam pensare in che maniera gli possiam pigliare, 8 e girgli tutti quanti dispogliando. La femina de’ aver amici molti, e di ciascun sì de’ prender su’ agio, 11 e far sì ch’ uon gli tenga per istolti; e far lor vender la torre e ’1 palagio, o casa o casolari o vero i colti, 14 sì che ciascun ci viva a gran misagio ».
IL FIORE
CLXIV.
LA VECCHIA.
« Nel libro mio so ben che studierai, figlia, quando sarai da me partita : certana son, se Dio ti dona vita,
4 che tu terrai scuola e leggerai. Di leggerne, da me congìo tu n’ hai; ma guardati che tu sie ben fornita di ritener la lezion c’ hai udita, 8 e saviamente la ripeterai. In casa non istar punto rinchiusa : ‘ a chiesa o vero a ballo o vero a piazza, 11 . in queste cota’ luogora sì usa; e fa che tu gli die ben de la mazza a que’ che per vederti sta a la musa, 14 e che d’averti giorno e notte impazza ».
CLXV.
LA VECCHIA.
«Or sì ti vo’ parlar del guernimento, come ciascuna de’ andar parata, chè per sua falta non fosse lasciata, 4 sì ch’ella fosse sanza intendimento. In ben lisciarsi sia su’ ’ntendimento ; ma, prima che si mostri a la brigata, convien ch’ella si sia ben ispecchiata, 8 che sopra lei non aggia fallimento. E s’ella va da sera o da mattina fuor di sua casa, vada contamente : 11 non vada troppo ritta nè tro’ china, sì ch’ella piaccia a chi la terrà mente; e se la roba troppo le traina, 14 levila un poco, e fiene più piacente ».
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IL FIORE
CLXVI.
LA VECCHIA.
« E s’ella non è bella di visaggio,
cortesemente lor torni la testa,
e sì lor mostri, sanza far arresta,
le belle bionde treccie da vantaggio.
Se non son bionde, tingale in erbaggio
e a l’uovo, e po’ vada a nozze e a festa; e, quando va, si muova sì a sesta
ch’al su’ muover non abbia punt’oltraggio.
E gentamente vada balestrando
intorno a sè, cogli occhi, a chi la guarda, e ’1 più che puote, ne vad’ accroccando. Faccia sembianti che molto le tarda
ched ella fosse tutta al su’ comando ;
ma d’amar nullo non fosse musarda ».
CLXVII.
LA VECCIIA.
«La lupa intendo che, per non fallire
a prender ella pecora o montone, quand’ e’ le pare di mangiar stagione, ne va, per una, un cento e più assalire. Così si de’ la femina civire,
sed ella avesse in sè nulla ragione: contra' ciascuno rizzar de’ il pennone per fargli nella sua rete fedire.
Chéèd ella non sa quale riman preso,
insin ch’ella no gli ha tarpata l’ala : sì de’ tener tuttor l’aiuol su’ teso,
e prendergli a’ gheroni e a la gala; ma se sapesse, o ch’ell’avesse inteso che fosse pover, gittil per la scala ».
IL FIORE
CLXVIII.
LA VECCHIA.
E s’ella ne prendesse gran funata di que’ che ciaschedun la vuol brocciare, sì si de’ ben la femina avvisare 4 d’assegnar a ciascun la sua giornata; chèéd ella rimarria troppo ’ngannata se l’un l’altro vi potesse trovare, ch’almen le converrebbe pur fallare 8 alle gioie che ciascun l’avria recate. Chè non si vuol lasciar già lor niente di che potesser far grande ’ngrassata, 11 ch’egli è perduto tutto il rimanente. Per ciò convien che ciascuna avvisata sia, sì che pover rimanga il dolente, 14 ella rimanga ricca e ben calzata ».
CLXIX.
LA VECCHIA.
«In pover uom non metter già tu’ amore, chè non è cosa che pover uom vaglia : di lu’ non puo’ tu aver se non battaglia 4 e pena e povertate e gran dolore. Lasciar ti farian robe di colore e sovente dormire in su la paglia: non t’ intrametter di cotal merdaglia, 8 chè troppo 1’ ’1 ti porria a gran fallore. Nè non amar già oste trapassante ; però che mutan tante ostellerie 11 ch’aver non posson cuor fermo nè stante : lor fatti non son che baratterie. Ma se ti dona, non sie rifusante, 14 e fa co llui infinte druderie ».
88 IL FIORE
CLXX.
LA VECCHIA.
« Nè non amar già uom che ’n sua bellezza | sì fidi, nè ch'egli a lisciarsi ’ntenda : in quel cotal non vo’ che tu t’ intenda, 4 ma, ’l più che puo’, da lu’ fa istranezza. L’uom che sì piace, fa gran scipidezza e grand’orgoglio, e l’ira di Dio attenda; e Tolomeus già dice in sua leggenda 8 ch’aver non potesse amor, nè franchezza. Nè non puote aver cuor di ben amare, _ chè tutto ciò ch’egli avrà detto a l’una, 11 sì tosto il va a l’altra ricontare ; e così pensa a far di ciascheduna, nè non intende ch’a lor barattare. 14 Udita n’ ho la pianta di più d’una ».
CLXXI.
LA VECCHIA.
« E s’egli viene alcun che ti prometta, e per promessa vuol ch’a lui t’attacci, i non vo già per ciò che tu lo scacci, 4 ma digli ch’altro termine ti metta, perciò ch’avrai allor troppo gran fretta. E sì vo’ ben chel basci e che l’abbracci ; ma guarda che con lui più non t’ impacci, 8 se non iscioglie prima la maletta. 0 s’alcun ti mandasse alcuno scritto, sì guarda ben la sua intenzione, 11 ched e’ non abbia fintamente scritto ; e poi sì gliene fa risponsione, ma non sì tosto : attendi un petitto, 14 sì ch’egli un poco stea in sospezzone ».
IL FIORE
CLXXII.
LA VECCHIA.
«E quando tu udirai la sua domanda, già troppo tosto non sie d’accordanza, x nè non fare di lui gran rifusanza : 4 nostr’arte sì nol vuol nè nol comanda. Cortesemente da te sì ’l1 ne manda e stea il su’ fatto tuttora in bilanza, sì ch’egli abbia paura ed isperanza 8 insin che sia del tutto a sua comanda. E quand’ e’ ti farà più pregheria, tu gli dirai tuttor che tu sie presta 11 a fargli tutta quanta cortesia ; e dì che ’1 su’ amor forte ti molesta, e così caccia la paura via. 14 Po’ dimora con lui e fagli festa ».
CLXXIII.
LA VECCHIA.
«Gran festa gli farai e grand’amore, e dì come gli ti se’ tutta data, ma non per cosa che t’aggia donata, 4 se non per fino e per leal amore; che tu ha’ rifiutato gran signore, che riccamente t’avrebbe donata : ‘ma i’ credo che m'avete incantata, 8 per ched i’ son entrata in quest’errore ’. Allor sì ’I1 bascierai istrettamente, pregandol che la cosa sia sagreta, 11 sì che nol senta mai nessuna gente. A ciò che vorrà fare, istara’ cheta ; ma guarda che non fossi acconsentente 14 a nessun, se non se per la moneta ».
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90 IL FIORE
CLXXIV.
LA VECCHIA.
« Chi ’1 su’ amico pensa di pelare, infin ch'egli aggia penna in ala o in dosso, e che d’ogn’ altro bene e’ sia sì scosso 4 ched e’ non si ne possa mai volare, quella cotal dovria l’uon maneggiare ; chè quanto ch’ella costa più di grosso, più fia tenuta cara, dir lo posso, 8 e più la vorrà que’ tuttor amare. Chè tu non pregi nulla cosa mai se non è quel che tu n’avra’ pagato : 11 se poco costa, poco il pregerai; e quel che ti sarà assai costato a l’avvenante caro il ti terrai, 14 con tutto n’aggie tu ben mal mercato ».
CLXXV.
LA VECCHIA.
« E al pelar convien aver maniera, sì che l’uomo avveder non sin potesse che tutto in pruova l’uon glile facesse:
4 forse ch’ e’ volgeria la sua bandiera. Ma faccia sì la madre o ciambericra, od altri in cui fidar ben si potesse, che ciascuna di lor sì gli chiedesse
8 paternostri o coreggia od amoniera.
Ancor la cameriera dica : ‘Sire, a questa donna una roba bisogna,
11 ma sì vi teme che nol v’osa dire. Gran danno le ha già fatto vergogna, ma vo’ sì nol dovreste sofferire !
14 Non ha dove le carni sue ripogna ‘ ».
IL FIORE 91
CLXXVI.
LA VECCHIA.
« Ancor gli dica un’altra de l’ostello : ‘Se madonna volesse far follaggio con un bellissim’uom di gran paraggio, 1 il fatto suo sarebbe ben e bello, e sì sarebbe donna d’un castello ; ma ’nverso voi ha sì leal coraggio, ch’ella non pronderebbe nul vantaggio R di che doman vo?’ foste su’ ribello ’. Allor la donna, come che le piaccia udir quelle parole, sì lor dica 11 e comandi che ciascuna sì taccia. E puote dir: ‘Se Dio mi benedica, tropp’ ho del su’ quand’ i’ 1’ ho tra le braccia’; 14 e facciagli sott’al mantel la fica ».
CLXXVII.
La VECCHIA.
« E so la donna punto s’avvedesse che quel dolente fosse ravvisato che troppo largamente l’ ha donato, 4 e che di sua follia sì ripentesse, allora in presto domandar dovesse e dir di renderglile a dì nomato ; ma egli è ben in mia lezion vietato 8 ched ella mai nessun non ne rendesse. E quando un altro vien, gli faccia segno ched ella sia crudelmente crucciata, 11 e dica che la roba sua sia ’n pegno: ‘Molto mi duol ch’uom crede ch’ i’ si’ agiata ’. E que’ procaccierà danari o pegno, 14 sì che la roba sua fie dispegnata ».
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IL FIORE
CLXXVIII.
LA VECCHIA.
« E se 1 diavol l’avesse fatto saggio,
e che la donna veggia c’ ha dottanza di non volerle far questa prestanza, immantenente sì gli mandi in gaggio la roba ch’ell’avrà più da vantaggio ; e dica che la tenga in rimembranza de’ suo’ danari, e non faccia mostranza ched e’ le paia noia nè eltraggio.
E poi attenderà alcuna festa,
Pasqua o Kalendi Maggio o Pentecosta, e sia intorno a lui sanza far resta, dicendo che già mai a la sua costa non dormirà, se que’ no gliele presta. La roba, in questa guisa, sì gliel’osta! »
CLXXIX.
LA VECCHIA.
« E s’alcun altro non ha che donare,
ma vorrassi passar per saramenta,
e dirà che la ’ndoman più di trenta
o livre o soldi le dovrà recare,
le saramenta lor non de’ pregiare, chèd e’ non è nessun che non ti menta; e dice l’un a l’altro : ‘La giomenta
che tu ti sai, mi credette ingannare ;
ingannar mi credette, i’ l’ ho ’ngannata! ‘.
Per che già femina non dee servire insin ch’ella non è prima pagata ;
chè quando ha fatto, e’ si pensa fuggire, ed ella si riman ivi scornata.
Per molte volte fui a quel martire ».
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IL FIORE 93
CLXXX.
LA VECCHIA.
« Sì de’ la donna, s’ell’ è ben sentita, quando ricever dovrà quell’amante, mostralli di paura gran sembiante,
e ch’ella dotta troppo esser udita,
e che si mette a rischio de la vita. Allor de’ esser tutta tremolante,
dir ch’ ivi non puot’esser dimorante : poi stea, che lor gioia sia compita.
Ancor convien ched ella si’ accorta di far che v’entri per qualche spiraglio, ben potess’egli entrarvi per la porta ; chè tutte cose ch’uom ha con travaglio par ch’uon le pregi più e le diporta. Quel che non costa, l’uon non pregia un aglio ».
CLKXXI.
LA VECCHIA.
«E quand’ella serà rassicurata, tantosto sì gli de’ correre indosso, e dir: ‘ Lassa tapina, ben mi posso chiamar dolente, s’1° son arrivata ched i’ sì amo, e sì non son amata! Molt’ ho lo ’ntendimento rud’e grosso, quando il me’ core s’ è sì forte ismosso d’esser di voi così innamorata ’.
E po’ sì gli rimuova quistione, e dica: ‘La lontana dimoranza .ch’avete fatta, non è san cagione ! Ben so che voi avete un’altr’amanza, la qual tenete in camera o ’n prigione ’. Sì mosterrà d’averne gran pesanza ».
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CLXXXII.
LA VECCHIA.
«Quando ’1 cattivo, che sarà ’ncacato, la cui pensea non serà verace, sì crederà che ’l fatto su’ ti piace 4 tanto, ch’ ogn’ altro n’ hai abbandonato, e chel tu’ cuor gli s’ è tretutto dato ; nè non si guarderà de le fallace in che la volpe si riposa e giace, 8 insin ch’ e’ non serà ben corredato. Chè molt’ è folle que’ che cred’avere nessuna femina che sia sua propia,
11 per don ched e’ facesse di su’ avere. Que’ che la vuol, la cheggia ’n Atiopia, chè qua no lla pott’ io ancor vedere,
14 e, s’ella ci è, sì porta la ritropia ».
CLXXXIII.
LA VECCHIA.
«Da l’altra parte elle son franche nate; la legge sì le tra’ di lor franchezza, dove natura per sua nobilezza
4 le mise, quando prima fur criate.
Or l’ ha la legge sì condizionate; ed halle messe a sì gran distrezza, che ciascheduna volontier s’adrezza
8 come tornar potesse a franchitate.
Vedi l’uccel del bosco quand’ è ’n gabbia : e’ canterà di cuor, ciò vi fi’ avviso,
11 ma no gli piace vivanda ch'egli abbia; chè natura in franchezza l’ ha sì miso che giorno e notte de l’uscirne arrabbia,
14 non avrà tanto miglio o grano o riso ».
IL FIORE 95
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CLXXXIV.
LA VECCHIA.
« E se quell’uom desdir non si degnasse, anzi dirà, per farla più crucciosa, che n° ha un’altra ch’ è sì amorosa 4 di lui, che per null'altro nol cambiasse, guardisi quella che non si crucciasse. Con tutto ciò se ne mostri dogliosa di fuor, ma dentr’al cuor ne sia gioiosa: ancora più sed egli s'annegasse ; e dicagli che già quella vendetta non sarà fatta se non sol per lei, 11 sì ch’ella il pagherà di quella detta. Allor da lui sì mi dipartirei ; di far amico mosterre’ gran fretta, 14 sì ch’ io in quella angoscia il lascerei ».
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CLXXXV.
LA VECCHIA.
“S’avessi messo termine a un’ora a due, ch’avresti fatto gran follia, e l’un con teco in camera sia,
4 e l’altro viene appresso san dimora, al di dietro dirai ch’ egl’ è ancora el signor tuo lassù; che non poria far dimoranza, ma tost'una fia:
8 ‘Il fante o voi, tornate a poca d’ora ’.
E poi sì 1 butti fuori e torni suso, e tragga l’altro fuor della burella,
11 . che molto gli è annoiato star rinchiuso ; poi si tragga guarnacca e gonnella, dicendo ch’ ell’ è tanto stata giuso
14 per lo marito, ch’era nella cella ».
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IL FIORE
CLXXXVI.
LA VECCHIA.
« Nel letto su’ sì metta in braccio in braccio
co llui, insieme faccian lor diporto; ma dica tuttor: ‘Lassa! crudel torto è questo che ’nverso il mi’ sire faccio ’. E nella gioia c’ ha, gli metta impaccio, sì ch’egli abbia paura e disconforto : dicer li dee che sarebbe morto, sanz’averne rispetto, molt’avaccio,
se l’uon sapesse che fosse co Ilei :
‘Ed i’ lassa dolente, malaurata, so che vitiperata ne sarei,
e ch’ i’ per man de’ mie’ sare’ ismembrata ’. | E in questa paura il metterei,
che da lui ne sarebbe più amata ».
CLXXXVII.
LA VECCHIA.
«Quand’a quel lavorio messi saranno,
ben saggiamente deggian operare,
e l’un attender e l’altro studiare, secondo ch’egli allor sì sentiranno; nè sì non de’ parer lor già affanno di voler ben a modo mantacare, ch’amendue insieme deggian affinare lor dilettanza ; e dimorasse un anno!
E se la donna non v’ ha dilettanza,
sì 8’ infinga in tutte guise che sia;
sì gline mostri molto gran sembianza : istringal forte e bascil tuttavia; quando l’uom avrà sua dilettanza,
sì paia ch’ella tramortita sia ».
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CLXXXVIII.
LA VECCHIA.
«Se l’uom può tanto far ched ella vada al su’ albergo la notte a dormire, sì de’ alla femina ben sovvenire 4 ched ella il faccia star un poco a bada. E que’ che guarderà tuttor la strada, certana sie che gli parrà morire, insin ched e’ no lla vedrà venire ; 8 chè l’amor ch’uom attarda, vie più aggrada. E quand’ella sarà a l’ostel venuta, sì dica a que’ che n° è sì amoroso, 11 ched ella per su’ amor tropp’ è arguta ; che ’1 su’ marito n’ è troppo geloso, sì che dubita molto esser battuta : 14 così gli faccia forte il pauroso ».
CLXXXIX.
LA VECCHIA,
«Se quel geloso la tien sì fermata ch’ ella non poss’ andar là ov’ ella vuole, sì lui faccia intendente che si duole 4 d’una sua gotta, che d’averl’ è usata ; per che convien ch’ella sia stufata, chè colla stufa guerir se ne suole. Po’ bullirà ramerin e viuole 8 e camamilla e salvia, e fie bagnata. E 1 geloso dirà: ‘ Va arditamente, e mena teco buona compagnia ’; 11 ma molto ne fia nel su’ cuor dolente, ma vede che desdir no gliel porìa. Quella mena con seco alcuna gente, 14 la qual sapranno ben sua malattia ».
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IL FIORE
CXC.
LA VECCHIA.
« Ancor non de’ aver femina credenza
che nessun uom malia far le potesse, nèd ella ancor altrui, s’ella volesse ch’'altri l’amasse contra sua voglienza. Medea, in cui fu tanta sapienza,
non potte far che Gesone tenesse
per arte nulla ch’ella gli facesse,
sì che ’nver lei tornasse la sua ’ntenza.
Sì non dea nessun don, che guari vaglia,
a null’amante, tanto la pregiasse : ben doni borsa, guanciale o tovaglia, o cinturetta che poco costasse, covriceffo o aguglier di bella taglia, o gumitol di fil, s'egli ’1 degnasso ».
CXCI.
LA VECCHIA.
«Ma ciascun uom ch’avesse in sè ragione
o che del mondo ben savio sarebbe, ma’ don di femina non prenderebbe, chè non son che lacci di tradigione ; chè quella che facesse donagione, contra la sua natura peccherebbe,
e’n gran follia ciascun gliele porrebbe, sed ella nol facesse a tradigione.
Perciò ciascuna pensi, quando dona,
che doni nella guisa e’ ho parlato ;
sì che, quand'ella avrà passata nona,
il guardacuore suo sia sì fodrato ch’ella non caggia a merzè di persona : e ciò tien tutto al ben aver guardato ».
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CXCII.
LA VECCHIA.
« Al ben guardar falli’, lassa dolente, che ciò ch’a l’un togliea a l’altro donava; come ’1 danaio venia, così n’andava,
4 non facea forza d’aver rimanente. I’ era di ciascun molto prendente, e tutto quanto a un ribaldo il dava, che puttana comune mi chiamava
x e mi battea la schiena ben sovente.
Questi era quelli che più mi piacea,
e gli altri, amici dolci i’ appellava,
11 ma solamente a costui ben volea, che molto tosto s’appacificava con meco, sì battuta non m’avea,
14 chè troppo dolzemente mi scuffiava ».
CXCITI.
LA VECCHIA.
« S’ 1° fosse stata, per l’anima mia, ben savia in giovanezza e conoscente, ch’ i’ era allor sì bella e sì piacente 4 che ’n ogne parte novelle ne gia, i sare’ troppo ricca in fede mia ; ma i’ sì 1 dava tutto a quel dolente, ch’a ben far non fu anche conoscente, 8 ma tutto dispendea in ribalderia. Nè no gli piacque nulla risparmiare che tutto nol bevesse e nol giucasse, 11 tant’era temperato a pur mal fare; sì ch’a la fin convenne ch’ i’ ’1 lasciasse, quand’ i° non ebbi più che gli donare, li e me e sè di gran ricchezza trasse ».
100 IL FIORE
CXCIV.
LA VECCHIA.
Così ha quella vecchia sermonato. Bellaccoglienza molto queta è stata e molto volontier l’ ha ascoltata, 4 e molto e’ n’ è ’1 su’ cuor rassicurato ; sì che seria legger’a far mercato, se Gelosia non vi fosse trovata e’ tre portier, che fanno gran vegghiata, 8 chè ciascun dotta d’esser barattato. Di Malabocca, che già era morto, nessun di lor non facea mala cera, 11 | chè chi l’amasse sì faria gran torto; | chè non finava di die nè da sera di dar a Gelosia nuovo sconforto, 14 nè non dicea già mai parola vera.
CXCV.
BFLLACCOGLIENZA.
Bellaccoglienza la parola prese, e sì rispuose, come ben parlante : « Gentil madonna, i’ vi fo grazie mante, 4 che di vostr’arte mi siete cortese ; ma ’1 fatto de l'amor non m'è palese, s'e’ non 8’ è in parole trapassante. Ched i’ sia di danar ben procacciante ? . 8 I’ n’ ho assai per farne belle spese. D’avere in me maniera bella e gente, a ciò vogl’ i ben metter mia balia, 11 in tal maniera che sia sofficente. Se voi mi parlate di malia ch’ella non può tornar già cuor di gente, 14 credal chi vuol, ch’ i’ la teng’a follia!»
IL FIORE 101
CXCVI.
BELLACCOGLIENZA.
« Del bel valletto che vo’ mi parlate, in cui tanta vertute è riposata, sed e’ la s’ ha, per me gli sia chitata : 4 8’ i l'amo, i’ l’amerò come mi’ frate. Ma per le gioie che m’ ha presentate, la mia veduta no gli fia vietata; ma venga, il più che puote, a la celata, 80° e, sed e’ piace a voi, sì ’1 ci menate. Ma che sia fatto tosto san dimora, perciò che Gelosia non può soffrire 11 ched ella stea sanza vedermi un’ora ; chè molte volte si parte per gire, e ’1 diavol, che di notte in lei lavora, 14 sì la fa mmantenente rivenire ».
CXCVII.
LA VECCHIA E BELLACCOGLIENZA.
La Vecchia sì la va rassicurando, e dice: «Sopra me lascia la cura di questo fatto ; non aver paura, 4 ched io il saprò ben andar celando. E gisse Gelosia tuttor cercando qua entro, sì seria grande sciagura 8’ ella ’1 trovasse, ma i’ son sicura 8 che poco le varria su’ gir sognando ». — «Dunque potete voi farlo venire, ma ched e’ si contegna come saggio, 11 che non pensasse a far nessun ardire ». | — «Figliuola mia, e’ non fece anche oltraggio in nessun luogo, ch’ i’ udisse dire, 14 ma troppo il loda l’uon di gran vantaggio ».
102 IL FIORE
CXCVIII.
L'AMANTE E LA VECCHIA.
Allor sì fecer fine al parlamento. La Vecchia se ne venne al mi’ ostello, e disse: « Avrò io sorcotto e mantello, 4 sed i’ t'apporto alcun buon argomento, che ti trarrà di questo tuo tormento ? » I’ dissi: «Sì, d’un verde fino e bello; ma, sì sacciate, non fia san pennello 8 di grigio, con ogni altro guernimento ». D'Amico mi sovvenne, che mi disse ched i’ facesse larga promessione, 11 ma ’1 più ch’ i’ posso, il pagar sofferisse ; avvegna ch’ i’ avea ferma ’ntenzione de dar ben a coste’, sella m’aprisse, 14 che quell’uscisse fuor della pregione.
CXCIX.
LA VECCHIA.
La Vecchia disse allor: « Amico mio, queste son le novelle ch’ 1° t’apporto : Bellaccoglienza salute e conforto
4 te manda, se m’aiuti l’alto Dio ; sì ch’ i ti dico ben ched i’ cred’ io, che la tua nave arriverà a tal porto, che tu sì coglierai il fior dell’orto ». K Questo motto fu quel che mi guerio. — « Or te dirò, amico, che farai : all’uscio, ch’apre verso del giardino, Il ben chetamente tu te ne verrai; ed i’ sì me ne vo ’l dritto cammino, e sì farò ch'aperto il troverai, 14 sì che tu avrai il fior in tuo dimino ».
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IL FIORE
CC.
L'AMANTE.
La Vecchia a tanto da me si diparte,
el cammin ebbe tosto passeggiato ;
e quand’ i’ fui un poco dimorato,
verso ’l giardin n’andai da l’altra parte, pregando Iddio che mi conduca ’n parte ch’ i de mia malattia fosse sanato. Aperto l’uscio sì ebbi trovato,
ver è ch’era socchiuso tutto ad arte.
Con molto gran paura dentro entrai ;
ma, quand’ i’ vidi Malabocca morto, vie men del fatto mio sì mi dottai. Amor trovai che mi diè gran conforto co l’oste sua, e ‘molto m'’allegrai,
che ciascun v’era, non in tram a corto.
CCI.
L'AMANTE E BELLACCOGLIENZA.
Com’ i’ v° ho detto, a tutto lor podere,
lo Dio d'amor e la sua baronia presti eran tutti a far senn’e follia per accompiermi tutto ’1 mio volere. Allor pensai s’ i’ potesse vedere Dolze-Riguardo per cosa che sia : immantenente Amor a me lo ’nvia, di che mi fece molto gran piacere.
E que’ sì mi mostrò Bellaccoglienza,
che ’mmantenente venne a salutarmi,
e sì ml fece grande profterenza ;
e po’ sì cominciò a merziarmi
delle mie gioie: ‘ di ch’ell'avea voglienza di quel presente ancor guiderdonarmi ?.
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IL FIORE
CCII.
L'AMANTE E BELLACCOGLIENZA.
l’ le dissi: « Madonna, grazie rendo
a voi, quando prender le degnaste, che tgnto forte me ne consolaste, ch’a pena mai maggiore gioia attendo, e s’ i l ho mai, da voi aver l’attendo. Sì ch’a me piace, se ciò che pigliaste, o la persona nila ancora ingaggiaste
o la vendeste : mai non vi contendo ».
Quella mi disse : « Molto gran merzede ;
di me, vi dico, fate ’1 somigliante, ch’a bene e a onore i’ v’'amo a fede ». Delle sue cose i’ non fu’ rifusante ; ma spesso falla ciò che ’1 folle crede : così avvenne al buon di ser Durante.
CCIIT.
L'AMANTE E LO SCHIFO.
Quand’ i’ vidi l’offerta che facea,
del fatto mi credett’esser certano : allor sì volli al fior porre la mano, che molto ringrossato mi parea.
Lo Schifo sopra me forte correa dicendo : « Tra’t' addietro, mal villano, che, se m’aiuti Iddio e San Germano, i non son or quel ch’ i’ esser solea.
E] diavol sì ti ci ha ora menato:
se mi trovasti a l’altra volta lento, or sie certan ch’ i’ ti parrò cambiato. Me’ ti varria che fossi a Benivento ». Allor al capezzal m’ebbe pigliato,
_ e domandò chi era mi’ guarento.
IL FIORE 105
CCIV.
VERGOGNA E PAURA.
Po’ sentì ’1 fatto Vergogna e Paura, quancd’ell’udiron quel villan gridare, ciascuna sì vi corse a lui aitare,
4 e quello Schifo molto s’assicura. Iddio e tutti i Santi ciascun giura ched elle ’1 mi faranno comperare : allor ciascun mi cominciò a buttare ;
8 molto mi fecer dispettela dura.
E disson ch’ i’ avea troppo fallato, po’ che Bellaccoglienza per su’ onore
11 e lei e ’1 suo m’avea abbandonato, ched i° pensava d°’ imbolarle il fiore. Dritt'era ch’ i’ ne fosse gastigato,
14 sì ch’ i’ ne stesse ma’ sempre in dolore.
CCV.
LU AMANTE.
Allor Bellaccoglienza fu fermata da questi tre portier sotto tre porte, e con una catena molto forte 4 quella gentil ebbero ’ncatenata. Po’ corser sopra me quella brigata, e disson : « Sopra te cadran le sorte ». Allor eredetti ben ricever morte, 8 tanto facean di me gran malmenata. Sì ch’ i° misericordia domandai a Paura, a Vergogna e a quel crudele; ul ma in nessuna guisa la trovai. Ciascun sì mi era più amar che fele ; per molte volte merzè lor gridai : 14 que’ mi dicean : « Per niente bele ».
106 IL FIORE
CCVI.
L'AMANTE.
Come costor m’andavar tormentando, en l’oste al Die d’amor sì fu sentita e sì cognobbor ch’ i’ avea infralita 4 la boce: immantenente miser bando che ciascun sì si vada apparecchiando a me soccorrere a campar la vita, ch’ella sarebbe in poca d’or fallita, 8 sed e’ non mi venisser confortando. Quando i portir sentiron quel baratto, immantenente tra lor si giuraro 11 di non renderla a forza nè a patto. E que’ di fuor ancor sì si legaro di non partirsi se non fosse fatto, 14 e di questo tra lor sì fidanzaro.
CCVII.
LA BATTAGLIA.
Franchezza sì venne primivramente contra lo Schifo, ch’ è molto oltraggioso, e per sembianti fiero e coraggioso ;
4 ma quella sì venne molto umilmente. Lo Schifo sì ponea troppo ben mente, chè ’n ben guardar era molto invioso, che quella non potesse di nascoso
8 entrar dentr’ a la porta con sua gente.
Franchezza mise mano ad una lancia; sì s'aperse per dare a quel cagnone,
ll e crudelmente contra lui la lancia.
Lo Schifo sì avea in mano un gran bastone, e co lo scudo il colpo sì lo schiancia, 14 e fiede a lei e falla gir boccone.
IL FIORE 107
CCVITI.
Lo ScHiro E FRANCHEZZA.
La lancia a pezzi a pezzi ha dispezzata, e po’ avvisa un colpo ismisurato, sì che tutto lo scudo ha squartellato : 4 Franchezza sì è in terra rovesciata. E que’ de’ colpi fa gran dimenata, e la bella merzè gli ha domandato ; sì ch’a Pietà ne prese gran peccato : 8 verso il villan sì s'è addirizzata, e con uno spunton lo gì pungendo, e.di lagrime tuttora il bagnava ; 11 sì che 1 villan si venia rendendo, ch’avviso gli era ched egli affogava. Allor Vergogna vi venne correndo, 14 perchè lo Schifo, soccorso! gridava.
CCIX.
[VERGOGNA, PIETÀ, DILETTO].
Vergogna sì venne contra Pietate, e molto fortemente la minaccia, e quella, che dottava sua minaccia,
4 sì s'apparecchia a mostrar sua bontate, chè ben conosce sua diversitate. Vergogna a una spada la man caccia, sì disse : « IP vo’ ben che ciaschedun saccia
s ched 1’ te pagherò di tue derrate ».
Allora alza la spada a lei feclire, ma Diletto sì venne a lei atare,
11 e di suo scudo la seppe coprire ;
e poi si torna per lei vendicare : ma Vergogna sapea sì lo schermire,
14 che que’ no lla potea magagnare.
108 IL FIORE
CCX.
[VeERGoGNA, DIiLErTo E BEN-CELARE].
Vergogna mise allor man a la spada e sì se ne vien dritta ver Diletto. Immantenente lo scudo ebbe al petto,
4 e disse: « Come vuole andar, sì vada,
ched i’ te pur farò votar la strada, o tu farai di piana terra letto ». Allor lo fie’ con molto gran dispetto, 8 come colei ch’a uccider lo bada, sì che lo mise giù tutto stenduto, e sì l'avrebbe fesso insino a’ denti.
11 Ma quando Ben-Celar l’ebbe veduto, perciò ch’egli eran distretti parenti, immantenente sì gli fece aiuto.
14. Vergogna disse : « I’ vi farò dolenti ».
CCXI.
[BEN-CELARE, VERGOGNA E PAURA].
Molt’era buon guerrier quel Buon-Celare : alzò la spada, e sì fiede Vergogna sì gran colpo ched ella tutta ingrogna, 4 e poco ne fallì d° a terra andare. E poi la cominciò a predicare, e disse: « Tu non temi aver vergogna di me; chèd e’ non ha di qui a Bologna 8 nessun, ch’un fatto saccia me?’ celare che saprò io, e per ciò porto il nome ». Vergogna sì non seppe allor che dire. 11 Paura la sgridò : « Cugina, come ha’ tu perduto tutto tuo ardire ? Or veggh’i’ ben ch’ è vita troppo dura, 14 quando tu hai paura di morire ».
IL FIORE 109
CCXII.
[GLI STESSI E ARDIMENTO].
A la sua spada mise man Paura per soccorrer Vergogna, sua vicina. A Ben-Celar diè per sì grande aina 4 ched e’ fu de la vita in avventura. Contra lei battaglia: poco dura. Ardimento soccorse ; a la miccina, con una spada molto chiara e fina, 8 e’ sì le fece molto gran paura. Ma tuttavia Paura si conforta, e prese cuore in far sua difensione, 11 e disse ch’ameria me’ d’esser morta, ©. ch’Ardimento le tolga sua ragione. Allora in testa gli diè tal’ iscorta, 14 ched ella ’1 mise giù in terra boccone.
CCXIII.
[SICURTÀ E PAURA].
Quando Sicurtà vide ch’Ardimento contra Paura avea tutto perduto, sì corse là per dargli il su’ aiuto 4 e cominciò il su’ torniamento. Ma contra lei non ebbe duramento : Paura quello stormo ebbe vincuto, e anche un altro, se vi fosse essuto ; 8 ma Sicurtà sì ebbe accorgimento. Ispada e scudo gittò tosto in terra, e ’mmantenente, con ambo le mani, 11 a le tempie a Paura sì s’afferra. F gli altri, ch’eran tutti lassi e vani, ciascun si levò suso, e sì s’afferra, 14 a quella zuffa, come fosser cani.
110 IL FIORE
CCXIV.
[TREGUA].
Molto durò tra lor quella battaglia, che ciascun roba e carni vi sì straccia ; l’un l’altro abbatte per forza di braccia : 4 non fu veduta mai tal trapressaglia ; che que’ d’entro facien troppo gran taglia di que’ di fuor. Amor allor procaccia che tra lor una trieva sì si faccia $ di venti dì, o di più, che me’ vaglia ; chè vede ben che mai quella fortezza, se la madre non v’ è, non prenderebbe. 11 Allor la manda a chieder per Franchezza. Contra colei sa ben non si terrebbe ; chè, s’ella il su’ brandon ver lor adrezza, 14 immantenente tutti gli arderebbe.
CCX V.
[AMBASCERIA A VENERE].
Franchezza sì s’ è de l’oste partita, e Amor sì l’ ha ben incaricato che li dica a la madre ogne su’ stato, 4 com’egli è a gran rischio de la vita, e che sua forza è molto infiebolita ; ch’ella faccia che per lei si’ aiutato. Allor Franchezza sì ha cavalcato, e dritto a Ceteron sì se n’è ita, credendo che vi fosse la diessa ; ma ell’er’ ita in bosco per cacciare, 11 sì che Franchezza n’andò dritt’a essa. Sott' una quercia la trovò ombreare. Quella sì tosto in ginocchie s’ è messa, A e dolzemente l’ebbe a salutare.
L
IL FIORE 111
CCXVI.
[FRANCHEZZA E VENFRE]).
« Molte salute, madonna, v’apporto dal vostro figlio, e pregavi, per Dio, che ’1 soccorriate, od egli è in punto rio,
4 chè Gelosia gli fa troppo gran torto.
- Ché non ha guar ched e’ fu quasi morto in una battaglia, in la qual fu’ io: ancor si par ben nel visaggio mio,
8 che molto mi vi fu strett’ ed a corto ».
Allor Venusso fu molto crucciata,
e disse ben che la fortezza fia 11 molto tosto per lei tutta ’mbraciata ; «ed a malgrado ancor di Gelosia, ella serà per terra rovesciata : 14 no lle varrà già guardia che vi sia ».
CCXVII.
[VENERE].
Venusso sì montò sus’ un ronzino corsiere, ch’era buon da cacciagione, e con sua gente n’andò a Citerone : 4 sì comanda che sia prest’al mattino il carro suo, ch’era d’oro fino. Immantenente fu messo il limone e presto tutto, sì ben per ragione 3 che, quando vuol, puote entrar in cammino. Ma non volle caval per limoniere nè per tirare il carro, anzi fé trare 11 cinque colombi d’un su’ colombiere ; a corde di fil d’or gli fè legare. Non bisognava avervi carrettiere, 14 chè la dea gli sapea ben guidare.
112 IL FIORE
CCXVIII.
[VENERE E AMORE).
Di gran vantaggio fu ’1 carro prestato. Venusso ben mattin v’ è su salita, e sì sacciate ch’ell’era guernita 4 e d’arco e di brandon ben impennato, e seco porta fuoco temperato. Così da Citeron sì s’ è partita, e dritta all’oste del figliuol n’ è ita 8 con suo’ colombi che ’1 carr’ han tirato. Lo Dio d’amor sì avea rotte le trieve, prima che Veno vi fosse arrivata,
11 chè troppo gli parea l’attender grieve. Venusso dritta a lui sì se n’ è andata, sì disse : « Figliuol, non dottar, che ’n brieve
14 questa fortezza no’ avremo atterrata ».
CCXIX.
[VENERE E AMORE).
« Figliuol mi’, tu farai un saramento, e io d’altra parte sì ’1 faroe, che Castitate 1° ma’ non lascieroe 4 in femina che aggia intendimento, nè tu in uom che ti si’ a piacimento. Ed i’ te dico ben ch’ i’ lavorroe col mi’ brandone ; sì gli scalderoe, 8 che ciaschedun verrà a comandamento ». Per far le saramenta sì apportaro, en luogo di relique e di messale, 11 brandoni e archi e saette ; sì giuraro di suso, e disser ch’altrettanto vale. Color de l’oste ancor vi s’accordaro, 14 chè ciaschedun sapea le Dicretale.
IL FIORE
CCXX.
[VENERE E VERGOGNA].
Venusso, che d’assalire era presta, sì comanda a ciascun ched e’ s’arrenda e che la sua mercè ciascuno attenda, 4 ch’ell’ ha la guarda lor tratutta presta. E sì lor ha giurato per sua testa, ched e’ non fia nessun che si difenda ch’ella de la persona no gli affenda ; 8 e così ciaschedun sì ammonesta. Vergogna sì respuose : «I° non vi dotto. Se nel castel non fosse se non io, 11 non crederei che fosse per voi rotto. Quando vi piace, intrate al lavorio. Già per minacce non mi ’ntrate sotto, 14 nè vo’ nè que’ che d’amor si fa Dio ».
CCXXI.
[VENERE, VERGOGNA E PAURA].
Quando Venus intese che Vergogna parlò sì arditamente contra lei, sì gli ha giurato per tutti gli dei 4 ch’ella le farà ancor grande vergogna ; e poi villanamente la rampogna, dicendo : « Garza, poco pregerei il mi’ brandon, sed i’ te non potrei 8 farti ricoverare in una fogna. Già tanto non se’ figlia di Ragione, che sempre co’ figliuoi m’ ha guerreggiato, 11 ch’ i non ti metta fuoco nel groppone ». Ed a Paura ancor da l’altro lato : «Ben poco varrà vostra difensione, 14 quand’ i’ v’avrò il fornel ben riscaldato ».
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114 IL FIORE
CCXXII.
[VENERE].
Molto le va Venusso minacciando, dicendo, se non rendono il castello, ched ella metterà fuoco al fornello, sì che per forza le n’andrà cacciando. E disse: «A mille diavol v’accomando 3 chi amor fugge, e fosse mi’ fratello!
Per Dio, i’ le farò tener bordello 8 color che l’ amor vanno sì schifando ; chèd e’ non è più gioia che ben amare. Rendetemi il castel, o veramente 11 i °1 farò immantenente giù versare ; e poi avremo il fior certanamente, e sì ’! faremo in tal modo sfogliare 14 che poi non fia vetato a nulla gente ».
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CCXXIII.
[VENERE ; LA BALESTRIERA].
Venusso la sua roba ha soccorciata, erucciosa per sembianti molto, e fiera ; verso ’1 castel tenne sua camminiera,
4 e ivi sì s° è un poco riposata. E riposando sì ebbe avvisata, come cole’ ch’era sottil’ archiera, tra due pilastri una balestriera,
8 la qual natura v’avea compassata.
Su’ pilastri un’ imagine avea assisa ; d’argento fin sembiava, sì lucea :
11 tropp’era ben tagliata a gran divisa. Di sotto un santuaro sì avea: d’un drappo era coperto, sì in tal guisa 14 . che’ santuaro punto non parea.
; IL FIORE
COCXXIV.
[LA BALESTRIERA].
Troppo avea quell’ imagine ’1 visaggio tagliato di tranobile fazzone : molto pensai d’andarvi a processione, 4 e di fornirvi mie pelligrinaggio. E sì non mi saria paruto oltraggio di starvi un dì davanti ginocchione, e poi di notte esservi su boccone, 8 e di donarne ancor ben gran logaggio. Chèd i’ era certan, sed i’ toccasse le ’rlique che di sotto eran riposte, 11 che ogne mal ch'i’ avesse mi sanasse; e fosse mal di capo o ver di coste od altra malattia, che mi gravasse, 14 a tutte m’avria fatto donar soste.
CCXXV.
[INCENDIO DEL CASTELLO].
Venus allora già più non attende, però ched ella sì vuol ben mostrare a ciaschedun ciò ched ella sa fare. 4 Immantenente l’arco su’ sì tende,
e poi prende il brandone e sì l’accende.
Sì no lle parve pena lo scoccare, e per la balestriera il fè volare, 8 sì che ’1 castel ma’ più non si difende. Inimantenente il fuoco sì s’apprese ; per lo castello ciascun sì fuggio, 11 sì che nessun vi fece più difese.
Lo Schifo disse: « Qui non sto più io ».
Vergogna si fuggì in istran paese, Li Paura a gran fatica si partio.
115
116 IL FIORE
CCXXVI.
[LIBERAZIONE DI BELLACCOGLIENZA].
Quando ’1 castello fu così imbrasciato e che le guardie fur fuggite via, allor sì v’entrò entro Cortesia, per la figliuola trar di quello stato. E Franchezz’ e Pietà da l’altro lato sì andaron co llei in compagnia. Cortesia sì le disse : « Figlia mia,
8 molt’ ho avuto di te il cuor crucciato, chè stata se’ gran tempo impregionata. La Gelosia aggi’ or mala ventura, 11 quando tenuta t’ ha tanto serrata. Lo Schifo, e Vergogna con Paura se son fuggiti, e la gol’ ha tagliata 14 ser Malabocca, per disavventura ».
Na
CCXXVII.
[CORTESIA E BELLACCOGLIENZA].
« Figliuola mia, per Dio e per merzede, aggie pietà di quel leal amante, che per te ha sofferte pene tante 4 che dir nol ti poria, in buona fede! In nessun altro iddio che te non crede, e tuttora a ciò è stato fermo e stante : figliuola mia, or gli fa tal sembiante 8 che sia certano di ciò ch’or non crede ». Bellaccoglienza disse : « I’ gli abbandono e me e’l fiore e ciò ch’ i’ ho ’n podere, 11 e ched e’ prenda tutto quanto in dono. Per altre volte avea alcun volere, ma non era sì agiata com’or sono. 14 Or ne può fare tutto’l1 su’ piacere ».
IL FIORE 117
CCXXVIII. [L'AMANTE].
Quand’ i’ udi’ quel buon risposto fino che la gentil rispuose, mi levai ed a la balestriera m’addrizzai, 4 chè quel sì era il mi’ dritto cammino, e sì v’andai come buon pellegrino, ch’ un bordon noderuto v’apportai, e la scarsella non dimenticai, 8 la qual v’appiccò buon mastro divino. Tutto mi’ arnese tal chent’ i’ portava, s'è di condurl’al porto in mia ventura, 11 di toccarne le ’rlique i’ pur pensava. Nel mi’ bordon non avea ferratura, chè già mai contra pietre no ll’urtava ; 14 la scarsella sì era san costura.
CCXXIX.
[L'AMANTE].
Tant’andai, giorno e notte camminando, col mi’ bordon che non era ferrato, che ’ntra duo be’ pilastri fu’ arrivato :
4 molto s’andò il mi’ cuor riconfortando. Dritt’a le ’rlique venni appressimando, e ’mmantenente mi fu’ inginocchiato per adorare quel corpo beato ;
8 po’ venni la coverta sollevando.
E poi provai sed i’ potea il bordone
in quella balestriera, ch’ i’ v’ ho detto, 11 metterlo dentro tutto di randone ;
ma i’ non potti, ch’ell’era sì stretto
l’entrata, che ’1 fatto andò in falligione. 14 La prima volta i’ vi fu’ ben distretto.
118 IL FIORE
CCXXX.
[L'AMANTE].
Per più volte falli’ a lui ficcare, perciò che ’n nulla guisa vi capea; e la scarsella ch’ al bordon pendea,
4 tuttor di sotto la facea urtare, credendo il bordon meglio far entrare ; ma già nessuna cosa mi valea.
Ma a la fine i’ pur tanto scotea,
$ ched i’ pur lo facea oltre passare. Sì ch’ io allora il fior tutto sfogliai,
e la semenza ch’ i’ avea portata,
Il quand’ ebbi arato, sì la seminai.
La semenza del fior v’era cascata ; amendue insieme sì le mescolai,
14 che molta di buon’erba n° è po’ nata.
CCXXXI.
[L'AMANTE].
Quand’ 1’ mì vidi in così alto grado, tutti i mie’ benfattori ringraziai, e più gli amo oggi ch’ i’ non feci mai, I che molto si penar di far mi’ grado. Al Die d’amor ed a la madre 1’ bado, e a’ baron de l’oste chiamo assai d’essere lor fedele a sempre mai,
x e di servirgli, e non guardar ma’ guado. Al buono Amico e a Bellaccoglienza rende’ grazie mille e mille volte ;
11 ma di Ragion non ebbi sovvenenza, che le mie gioie mi credette aver tolte. Ma contra lei 1 ebbi provedenza,
14 sì ch’ i l’ ho tutte quante avute e colte ;
IL FIORE 119
CCXKXXII.
[CONCLUSIONE].
malgrado di Ricchezza la spietata, ch’unquanche di pietà non seppe usare, che del cammin c’ ha nome Troppo-Dare
4 le piacque di vietarmene l’entrata ; ancor, di Gelosia ch’ è sì spietata, che dagli amanti vuole il fior guardare ; ma pure ’1 mio non sepp’ella murare,
8 ched i' non vi trovasse alcuna entrata.
Ond’ io le tolsi il fior ch’ella guardava; e sì ne stava in sì gran sospezzone,
11 che la sua gente tuttor invegghiava; Bellaccoglienza ne tenne in pregione, perch’ella punto in lei non si fidava:
14 e sì n’er’' ella donna di ragione!
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DETTO D'AMORE
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DETTO D'AMORE
Amor sì vuole e parli ch'i ’n ogni guisa parli e ched i’ faccia un Detto, che sia per tutto detto 5 ch’ i’ l’aggia ben servito. Po’ ch’e’ m’ebbe inservito e ch’ i’ gli feci omaggio, i l’ ho tenuto maggio e terrò già ma’ sempre ; 00 e questo, fin assempr’ è a ciascun amoroso, sin c Amor amoroso no gli sia nella fine, anzi, ch’ e’ metta a fine 15 ciò ch’ e’ disira avere, che val me’ c’altro avere. Ed egli è sì cortese che chi gli sta cortese od a man giunte avanto, 20 esso sì ’1 mette avante di ciò ched e’ disira, e di tutto il disir ha.
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DETTO D’AMORE 23-60
Amor non vuol logaggio, ma e’ vuol ben lo gaggio che ’1 tu’ cuor si’ a lu’ fermo. Allor dice: « I’ t’affermo
di ciò che tu domandi, sanza che tu don mandi »; e donati in presente, sanz’esservi presente
di fino argento o d’oro. Per ch’ i’ a lui m’adoro come leal amante.
A lu’ fo graze, amante quella che d’ogne bene
è sì guernita bene
che ’n le’ non truov’uon pare. E quand’ella m’appare
sì grande gioia mi dona, che lo me’ cor s’adona
& le’ sempre servire ;
e di le’ vo’ serv’ ire,
tant’ ha in le’ piacimento. Non so se piacimento
le fia ched i’ la serva: almen può dir che serv’ ha, come ch’ i’ poco vaglia. Amor nessun non vaglia, ma ciascun vuole ed ama, chi di lui ben s’ inama,
e di colu’ fa forza
che ’n compiacer fa forza. E° non ha, in nulla, parte Amor, in nulla part’ è ch’ e’ non sia tutto presto a fine amante presto. Così sue cose livera
a chi l’amor non livera e mette pene e ’ntenza in far sua penetenza,
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tal chente Amor comanda a chi a lu’ s’accomanda,
e chi la porta in grado
il mette in alto grado
di ciò ched e’ disìa:
Per me cotal dì sia!
Per ch’ i’ già non dispero, ma ciaschedun dì spero merzò, po’ ’n su’ travaglio i son sanza travaglio,
e sonvi sì legato
ch’ i non vo’ che Legato già mai me ne prosciolga : se n’ ha altri pro’, sciolga!
Ch’ i° vo’ ch'Amor m’alleghi,
che che Ragion m'’alleghi : di lei il me’ cor sicur ha, nè più di lei non cura;: ella si fa diessa:
nè fu’ nè fia di essa! Amor blasma e disfama
e dice ch’ e’ diffama,
ma non del mi’, certano ; perch’ i’, per le’, certan ho che ciaschedun s’abatte : me’ ched Amor sa, batte. Ed a me dice: « Folle, perchè così t’affolle d’aver tal signoria ?
I’ dico, signo ri’ ha
chi porta su’ suggello.
I’ per me non suggello della sua ’mprenta breve, ch’ è troppo corta e breve la gioia e la noia lunga. Or taglia’ geti, e lunga da lui, ch’egli è di parte che, chi da lu’ si parte,
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DETTO D’AMORE 99-136
e’ fugge e sì va via.
Or non tener sua via
se vuo’ da lu’ campare ;
e se non, mal camp’ are, che biado non vi grana, anzi perde la grana chiunque la vi getta.
Per Dio, or te ne getta
di quel falso diletto,
e fa che si’ a diletto
del mi’, ched egli è fine, che dà gioia sanza fine. Lo dio dov’ hai credenza non ti farà credenza
se non come Fortuna.
Tu se’ in gran fortuna
se non prendi buon porto per quel ched i’ t’ ho porto, ed a me non t’apprendi
e ’1 mi’ sermone apprendi. Or mi rispondi e dì, ch’egli è ancor gran dì
a farmi tua risposta ;
ma non mi far ri’ ’sposta a ciò ch’ i’ ho proposato. Di’ tu, se pro’ posat’ ho ». E, quand’ i’ ebbi intesa Ragion, ch’ è stata intesa a trarmi de la regola d’Amor, che °1 mondo regola, i’ le dissi: « Ragione,
i ho salda ragione
con Amor, e d’accordo siam ben del nostro accordo, ed è scritto a mi’ conto ch’ i’ non sia più tu’ conto. È la ragion dannata; perch’ i’ t' ho per dannata
i
DETTO D’AMORE 137-174 127
ed ebbi, per convento, po’ ch’ i’ fu’ del convento d’Amor cu’ Dio mantenga, 140 e sempr’ e’ me mantenga. Tu mi vuo’ trar d’amare e di° c' Amor amar è: 1 ’1 truova’ dolce e fine, e su’ comincio e fine 145 mì piacque e piacerà, chè ’n sè gran piacer ha. Or come vivere’ ’o ? sanz’ Amor vive reo chi sì governa al mondo; 150) sanz’ Amor egli è mondo d’ogne buona vertute nè non può far vertute ; sanz’Amor sì è nuia, che, con cu’ regna, envia 155 d’andarne dritto al luogo - là dove Envia ha /luogo. E per ciò non ti credo, se tu diciess’ il Credo e ’1 Paternostro e l’Ave, 160 sì poco in te senn’ ave. Addio, ched i’ mi torno, e fine amante torno per devisar partita com’ ell’è ben partita 165 e di cors e di membra, sì come a me mi membra ». Cape’ d’oro battuto paion, che m’ han battuto, quelli che porta in capo, 170 per ch’ i’ a lor fo capo. La sua piacente cera non è sembiante a cera, anz’ è sì fresca e bella che lo me’ cor s’abbella
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DETTO D'AMORE 175-212
di non le mai affare,
tant’ ha piacente affare. La sua fronte e le ciglia bieltà d’ogne altre sciglia. Tanto son ben voltati
che’ mie’ pensier voltati hanno ver lei, che gioia mi dà più c’altra gioia.
In su’ dolze riguardo
di niun mal ha riguardo cu’ ella guarda in viso, tant’ ha piacente avviso ; ed ha sì chiara luce
ch’al sol to’ la sua luce
e lo scura e l’aluna,
sì come il sol la luna. Perch’ i’ a quella spera
ho messa la mia spera,
e sì ben co llei regno,
i’ non vogli’ altro regno. La bocca el naso e 1 mento ha più belli, e non mento, ch’unque non ebbe Alena; ed ha più dolce alena
che nessuna pantera.
Per ch’ i’ ver sua pantera i mi sono ’n fed’ ito,
e dentro v’ ho fedito ;
ed èmmene sì preso
ched i’ vi son sì preso
che mai, di mia partita, non mi farò partita.
La gola sua e ’1 petto
sì chiar’ è, ch’a Dio a petto mi par esser la dia
ch’ i' veggio quella Dia. Tant’ è bianca e lattata, che ma’ non fu allattata
n Hi «+ ua pa * eee cera vay gie tie eine la.
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nulla di tal valuta.
A me tropp’ è valuta, ched ella sì m’ ha dritto in saper tutto ’] dritto
c' Amor usa in sua corte, che non v’ ha legge corte. Mani ha lunghette e braccia, e chi co llei s’abbraccia già mai mal non ha gotta nè di ren nè di gotta:
il su’ nobile stato
sì mette in buono stato chiunque la rimira.
Per che ’1 me’ cor sì mira in lei e notte e giorno,
e sempre a lei aggiorno, ch’Amor sì l’ ha inchesto, ned e’ non ho inchesto
se potesse aver termine, ch’amar vorria san termine. E quando va per via, ciascun di lei ha ’nvia per l'andatura gente;
e quando parla a gente sì umilmente parla
che boce d’agnol par là. Il su’ danzar e ’] canto val vie più ad incanto che di nulla serena,
chè l’aria fa serena: quando la boce lieva, ogne nuvol si lieva
e l’aria riman chiara.
Per che ’1 me’ cor sì chiar’ ha
di non far già mai cambio di lei a nessun cambio ; ch’ell’ è di sì gran pregio ch’ i’ non troveria pregio
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nessun, che mai la vaglia. Amor, se Dio mi vaglia,
il terrebbe a follore,
e ben seria foll’ o re’ quand’ io il pensasse punto.
Ma Amor l’ ha sì a punto nella mia mente pinta,
ch’ i la mi veggio pinta
nel cor, s’ i' dormo o veglio. Unque Assessino al Veglio non fu già mai sì presto, nè a Dio mai il Presto, com’ io a servir amante,
per le vertù ch’ ha mante.
E s’io in lei pietanza truov’ o d’una pietanza del su’ amor son contento, i’ sarò più contento,
per la sua gran valenza, che s’ io avesse Valenza. Se Gelosia ha ’n sè gina di tormene segina,
lo Dio d’amor mi mente ; chèd i’ ho ben a mente ciò ched e’ m’ebbi in grado sed i’ ’l servisse a grado.
Ben ci ha egli un cammino
più corto ; nè ’1 cammino, per ciò ch’ i' non ho entrata ched i’ per quell’ entrata potesse entrar un passo. Ricchezza guarda il passo, che non fa buona cara
a que’ che no ll’ ha cara. E sì fu’ 1 sì saggio
ched i’ ne feci saggio,
8’ i potesse oltre gire.
« Per neente t’aggire »
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Le o (di
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mi disse, e con mal viso: «tu se’ da me diviso,
per ciò il passo ti vieto; non perchè tu sie vieto, ma tu non m’accontasti unque, ma mi contasti :
e io ciascun schifo
che di me si fa schifo. Va’ tua via e sì procaccia, ch’ i so ben, chi pro’ caccia, convien che bestia prenda. Se fai che Veno imprenda la guerr’a Gelosia,
come che ’n gelo sia, convien ch’ella si renda, e ched ella ti renda
del servir guiderdone, sanza che guiderdone.
Ma tuttor ti ricorde,
se ma’ meco t’accorde, oro e argento apporta :
i’ t'aprirò la porta,
sanza che tu facci’ oste. E sì avrai ad oste Folle-Larghezza mala,
che scioglierà la mala
e farà gran dispensa
in sale ed in dispensa en guardarobe e ’n cella. Povertà è su’ ancella : quella convien t’appanni e che ti tragga panni
e le tue buone calze,
che già mai no lle calze, e la camiscia e brache, se tu co Ile’ t’ imbrache. Figlia fu a Cuor-Fallito : per Dio, guarda ’n fall’ ito
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non sia ciò ch’ i’ t’ ho detto! E sie con meco addetto
e mostra ben voglienza d’aver mia benvoglienza ; chè Povertat’ è insomma d’ogne dolor la somma. Ancor non t’ ho nomato un su’ figliuol nomato : Imbolar uon l’appella :
chi da lu’ non s’appella, egli ’1 mena a le forche,
là dove non ha for che
e’ monti per la scala, dov’ogne ben gli scala,
e danza a suon di vento, sanz’ aver mai avento.
Or sì t’ ho letto il salmo : ben credo a mente sa ’1] mo)’, sì ’l t' ho mostrato ad agio. Se mai vien’ per mi’ agio, pensa d’esser maestro
di ciò ch’ i’ t'ammaestro ; che Povertà tua serva . non sia, nè mai ti serva, chè ’1 su’ servigio è malo,
e ben può dicer « mal ho » cu’ ella spoglia o scalza; chè d’ogne ben lo scalza,
e mettelo in tal punto
ch’ a vederlo par punto.
E gli amici e’ parenti
no gli son apparenti : ciascun le ren gli torna
e ciascun se ne torna. Perch’Amor m’aggia matto, o che mi tenga a matto
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Ragion, cui poco amo,
già, se Dio piace, ad amo ch’ell’aggia non m’ ha crocco. Amor m’ ha cinto il crocco, con che vuol ched i’ tenda 8’ i° vo’ gir co lIlui”n tenda. E dice, s’ i’ balestro
se non col su’ balestro,
o s’ i’ credo a Ragione
di nulla sua ragione
ch’ella mi dica o punga,
o sed i’ metto in punga ricchezza per guardare,
o 8° i’ miro in guardare,
a lui se non, ciò c’ ho,
di lui non faccia co;
ma mi getta di taglia,
e dice che ’n sua taglia
i’ non prenda ma’ soldo, per livra nè per soldo
ched i’ già ma’ gli doni. Amor vuol questi doni: corpo e avere e anima,
e con colui s’ inanima,
chi gliel’ dà certamente
(e chi altro accerta, mente), e sol lui per tesoro
vuol ch’'uon metta °’n tesoro. E chi di lui è preso,
sì vuol ch’ e’ sia appreso d’ogne bell’ordinanza
che ’1 su’ bellor dinanza. Chi ’1 cheta come dee,
sì acchita ciò ch’ e’ dee.
D’orgoglio vuol sie voto,
ched egli ha fatto voto di non amarti guar’ dì se d’orgoglio nol guardi;
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chè fortemente pecca que’ che d’orgoglio ha pecca. Cortese e franco